Disastro a capodanno, disastro tutto l’anno! La notte dell’ultimo giorno del 2012 la piattaforma petrolifera “Kulluk” della Shell si è incagliata sull’isola di Sitkalidak, vicino a quella di Kodiak, in Alaska. È un paradiso della biodiversità dell’Artico, la “patria” dell’orso Kodiak (Ursus arctos middendorffi), una sottospecie di orso bruno nota per le sue imponenti dimensioni: fino a 3,2 metri e 640 chilogrammi.

La Kulluk è una vecchia piattaforma della Shell, che l’estate scorsa avrebbe dovuto trivellare l’Artico ma, per fortuna, le operazioni - costate 5 miliardi di dollari - sono state ufficialmente interrotte per un problema alla "cupola" che avrebbe dovuto contenere eventuali fuoriuscite di greggio. Dopo il fiasco estivo, il 27 dicembre la Kulluk è in transito verso Dutch Harbour, in Alaska, trainata dal nuovissimo e sicurissimo rimorchiatore rompighiaccio “Aiviq” (che nel linguaggio Inupiak, un dialetto Inuit, sta per “tricheco”) costato 200 milioni di dollari. Il vento e le onde del Mare di Bering non si sono fatti impressionare dal costoso “tricheco” e hanno rotto i cavi di traino con una facilità disarmante. Che ci faceva a spasso nell’Artico questo convoglio? È vero che la Shell stava spostando la Kulluk per risparmiare 6 milioni di dollari di tasse?

Il giorno dopo l’Aiviq riesce a riagganciare la Kulluk ma dopo “numerosi problemi ai motori” del rimorchiatore l’operazione di traino viene nuovamente interrotta e la Kulluk è di nuovo alla deriva, a cinquanta miglia dall’Isola di Kodiak, con onde di dieci metri e vento a quasi ottanta chilometri all'ora.

Domenica 30 dicembre l’equipaggio della Kulluk viene evacuato da un elicottero della Guardia Costiera USA: un altro tentativo di riagganciare la piattaforma ai rimorchiatori fallisce ancora. La Kulluk è ancora alla deriva, ma l’Aiviq riesce a riconnettersi alla piattaforma lunedì 31 dicembre e comincia a trainarla verso Port Hobron, sempre in Alaska. Sembra che sia la fine dell’incubo ma è solo l’inizio: la sera di capodanno i cavi d’ormeggio si rompono per l’ultima volta a sole quattro miglia dall’Isola di Sitkalidak, dove la Kulluk si arena, poco prima delle 21:00, su un fondale di circa dodici metri

Sulla Kulluk ci sono 530 mila litri di gasolio e 45 mila litri di oli lubrificanti: molto peggio del “normale” petrolio greggio, visto che si tratta di prodotti distillati ricchi di idrocarburi policiclici aromatici (IPA) e altre sostanze pericolose. Negli ultimi giorni le squadre di soccorso hanno approfittato di un temporaneo miglioramento, si fa per dire, delle condizioni meteo e sono riuscite a ispezionare parte della Kulluk: in almeno una cisterna è presente acqua di mare (e quindi… c’è una falla) anche se ufficialmente non ci sono sversamenti in mare. 

Dopo la performance di Shell e della Guardia Costiera USA nel Golfo del Messico non possiamo aspettarci trasparenza e accuratezza. In quella occasione ci sono state enormi sottostime della fuoriuscita di petrolio dalla Deepwater Horizon e chi voleva andare a vedere di persona cosa stava davvero succedendo è stato ostacolato. Perché dovremmo attenderci di meglio adesso, in un’area remota dove è davvero difficile avere informazioni di prima mano?

Gli effetti di una “marea nera” nell’Artico sono purtroppo noti. Nel 1989 la Exxon Valdez si schiantò nel Prince William Sound. Se da subito fu evidente la moria di uccelli, foche, otarie e orche, restano ancora oggi gli impatti su alcune popolazioni ittiche che non si sono mai riprese. Qualcuno ha provato ad archiviare quel disastro dando la colpa al comandante (una cosa “alla Schettino”) ma Joseph Hazelwood è stato assolto: il problema non era lui (che era perfettamente sobrio), semplicemente con questo mare non si scherza. Shell, invece, insiste.

Le attività petrolifere di Shell nel Mare di Baufort e nel Mare di Chukchi sono, infatti, già un ricco catalogo di incidenti e di dimostrate omissioni nelle procedure di sicurezza. Shell continua ad assicurare di avere un “programma Arctico” di prima classe per perforare in condizioni “estreme” in tutta sicurezza. Il disastro della Kulluk dimostra che Shell non può garantire un bel niente. E, per dirla tutta, non può garantire nulla nemmeno nel Canale di Sicilia o nel Mar Ionio dove (dalla prossima estate?) vorrebbe cominciare a trivellare. 

La sequenza di errori e incidenti che ha portato all’incaglio della Kulluk sarebbe quasi comica se non fossimo a un passo dall’ennesima tragedia. Per questo è importante fermare queste maledette trivelle: nell’Artico, nel Mediterraneo e…ovunque!

ULTIM'ORA. Approfittando della finestra meteo favorevole, una flotta di almeno otto imbarcazioni (tra mezzi della Shell e della Guardia Costiera USA) è riuscita a disincagliare la Kulluk. La piattaforma, di cui è in corso un’ispezione accurata per verificarne lo stato, è ora nella Baia di Kiliuda, nell’Isola di Kodiak, a circa 60 chilometri dal sito d’incaglio. La baia, come tutta l’isola, è un paradiso di diversità biologica con cetacei, foche, uccelli. Il mare è poi ricco di pesci e crostacei che sono tra l’altro una delle principali risorse economiche della popolazione locale.



Sembra confermato che le perdite di idrocarburi siano state irrilevanti e questa è l’unica buona notizia, per ora. L’altra, quella che attendiamo tutti, è che Shell impari qualcosa da questo fiasco fantozziano e rinunci a trivellare in mare: nell’Artico come nel Mediterraneo!

L’incidente della Kulluk ha sollevato inquietanti interrogativi sulle procedure di sicurezza seguite da Shell, che pure si vanta di essere all’avanguardia! Speriamo che quest’ennesimo incidente serva a far rinsavire gli investitori e i governi che devono opporsi a questa follia.

Alessandro Giannì, direttore delle Campagne di Greenpeace Italia