Ci svegliamo con il sole, quasi fosse estate. A colazione troviamo i volontari arrivati nella notte da Istanbul. Adesso siamo più di trenta e cominciamo la giornata con olive, tahini e caffè turco. L’atmosfera è rilassata: ieri abbiamo finito di installare i pannelli solari anche davanti alla scuola di Yirca, dopo quelli installati alla moschea, e oggi ci rimangono solo dei lavoretti: dipingere le ultime sedie, terminare i preparativi per l’inaugurazione.

I bambini iniziano ad accorrere uno dopo l’altro, accompagnati dai genitori. E in questo lento e armonioso avvio di giornata c’è il tempo di lasciar correre veloci, velocissimi, i ricordi alla nostra infanzia. Cominciamo a giocare e a dare vita ed energia a quella che sarà la nostra festa per l’inaugurazione dell’impianto solare. Come la più contagiosa delle malattie, i sorrisi riempiono ogni viso al solo incrociarsi degli sguardi.

È quasi mezzogiorno, ci attacchiamo alla rete per scegliere delle foto da mandare in Italia, immagini che possano dare un’idea della bellezza dei volti di questi bambini, di questi anziani e soprattutto di queste donne che hanno combattuto con costanza, in prima linea, per proteggere la loro terra, e che ora guardano soddisfatte i pannelli solari. Questa è stata in primis la loro battaglia per un futuro pulito.

E poi arriva Umut. Ci guarda. Ci chiede se sappiamo. Tre bombe ad Ankara. La stazione della capitale turca, piena di manifestanti che chiedevano la pace tra la Turchia e il popolo curdo, è esplosa. Trentacinque morti. Anzi no, 70. Centinaia di feriti*.

Come la più contagiosa delle malattie i nostri volti si fanno tetri al solo incrociarsi degli sguardi. Ci guardiamo. L’inaugurazione festosa che avevamo organizzato per celebrare l’energia pulita del sole, non si farà più. Alcuni dei ragazzi turchi hanno amici e parenti ad Ankara. E anche chi non ha nessuno laggiù, non può pensare di festeggiare quando chi lottava per la pace ha perso la vita in strada difendendo i suoi ideali. Le bombe non hanno colpito solo Ankara, straziando i corpi di chi manifestava: hanno colpito anche noi che, nel nostro piccolo, in questo villaggio contadino, abbiamo creato una comunità non violenta, ricca perché diversa, pacifica.

Mentre scriviamo, ragazzi marocchini, una donna giordana, turchi, israeliani, greci collaborano, ridono, condividono idee. Le nostre reazioni sono però diverse di fronte alle bombe. Alcuni convivono con la paura, ed è sconcertante pensare come possano essere ormai abituati alla violenza che invade la loro quotidianità. Noi siamo senza parole, ma trovarle è l’unico modo che abbiamo per esprimere la nostra solidarietà.

Il nostro obiettivo comune ci ha portati nello stesso luogo per lavorare insieme, scoprendo le nostre diversità e il nostro essere uguali. E rispettandoci siamo riusciti a creare qualcosa che durerà nel tempo. Questa è la società che vorremmo: una società che può essere verde solo se è di pace. Questa è Greenpeace.

 *Oggi sappiamo che alla fine i morti saranno un centinaio, addirittura 128 secondo il partito filo-curdo HDP.

 

Lorenzo Monacci e Elettra Repetto