L'esplosione della Deepwater Horizon, era il 20 aprile 2010, non doveva succedere. Così come il disastro di Fukushima, per non parlare di quello della Costa Concordia, e tanti altri che di casuale e di imprevisto non hanno praticamente nulla. Quella piattaforma non era un vecchio rottame, ma il meglio che la tecnologia potesse offrire in fatto di "sicurezza". E forse, il problema è stato proprio quello.

Difficile dare la colpa al destino cinico e baro quando i disastri sono frutto della ricerca di profitto. Incidenti che vedono complici gli stessi soggetti regolatori, come politici e agenzie governative che, più che collusi, sono sudditi di chi dovrebbero controllare.

La valutazione di impatto ambientale sulle perforazioni della BP nel Golfo del Messico, e il relativo "piano d'emergenza", resteranno a lungo nella nostra memoria come qualcosa che potrebbe anche farci sorridere, se non avesse causato: 11 morti, oltre 1.500 km di coste rovinate e tra 500 e 700 mila tonnellate di petrolio finito in mare. Quel piano, ad esempio, prevedeva, in caso di incidente, l'intervento di un "esperto" ormai deceduto. E che dire del tentativo di usare una "campana" per intrappolare il pozzo? A nessuno è venuto il dubbio che un sistema che funziona a 100 metri di profondità possa non funzionare a 1.500 metri?

 

Quei momenti angosciosi ci tornano in mente perché si sta per aprire il "processo del secolo" che mette alla sbarra Brithish Petroleum (BP) ma anche Transocean (proprietaria della piattaforma Deepwater Horizon, che BP affittava per mezzo milione di dollari al giorno) e Halliburton (l'azienda il cui cemento avrebbe dovuto sigillare il pozzo, ma c'è chi sostiene che fosse di qualità scadente).

Si parla di indennizzi miliardari - tra i 25 e i 50 miliardi di dollari - ma sono conti che si fanno sempre alla fine. Nel caso del processo alla Exxon Valdes, la Exxon (Esso…) alla fine pagò solo il 10 per cento della multa inizialmente disposta (da 5 miliardi a 507 milioni di dollari). Mentre lassù, in Alaska, ci sono ancora popolazioni di uccelli e pesci che pagano le conseguenze di quel disastro. Per non parlare del caso Haven, esplosa davanti Genova nell'aprile 1992, dove alla fine, i risarcimenti non coprirono nemmeno i costi pagati dallo Stato italiano per fronteggiare le emergenze.

Si potrebbe pensare che i diretti responsabili di questi disastri abbiano imparato qualcosa dai danni combinati, ma pare non sia così...

La Shell intende avviare un grosso programma di esplorazione petrolifera nell'Artico: un'area incontaminata dove nessuno saprebbe intervenire in caso di incidente. Ogni ipotesi di intervento in mare è esclusa per otto mesi l'anno visto che il mare, qui, è ghiacciato. Anche per questo venerdì scorso sette attivisti di Greenpeace hanno scalato in Nuova Zelanda una piattaforma affittata da Shell per avviare queste attività. Sempre Shell, insieme a ENI e altre multinazionali del petrolio, punta al Mediterraneo: un mare chiuso e già pesantemente inquinato dagli idrocarburi. Qui passa il 30 per cento del traffico navale di petrolio e vivono oltre 500 milioni di persone, su una superficie che è inferiore all'1 per cento dei mari del pianeta.

Guardiamo in faccia la realtà: questo petrolio, come il carbone, anche se "tutto sommato va bene", anche se non finisce in mare, viene comunque bruciato e, inevitabilmente, uccide il clima del pianeta. Cosa che, detto tra parentesi, non fa bene nemmeno ai nostri mari. La società in cui viviamo ha fame di energia e fino a quando l'oro nero avrà un valore strategico, ci sarà sempre qualche pazzo che vorrà estrarlo, anche a rischio di danni incalcolabili.

Qualcuno ha detto che l'età della pietra non è finita per mancanza di pietre. Allora, chi ci dice che per passare all'età delle energie pulite e dell'efficienza energetica  dobbiamo tirare fuori l'ultima goccia di petrolio o l'ultimo sassolino di carbone?

Alessandro Giannì,

direttore delle Campagne