Che l’attivismo non è un crimine Greenpeace lo proclama da anni. Questo convincimento ha a che fare con la nostra visione del mondo, con la nonviolenza che è la stella polare di ogni nostro intervento; e con l’idea, soprattutto, che vi debba essere la possibilità per ciascun essere umano di battersi liberamente per ciò in cui crede, sin quando la sua battaglia non nuoce a nessuno. Molto spesso le nostre azioni infrangono delle norme, per lo più trascurabili: non commettiamo “crimini”, appunto, ma atti di disobbedienza civile. Per i quali siamo sempre stati pronti a pagare, pur esercitando i nostri diritti di difesa. Non ci sottraiamo mai alle conseguenze dei nostri atti: pretendiamo invece che siano riconosciuti per ciò che sono. E no, non sono un crimine.

In questi mesi, e anche nelle settimane recenti, vi sono stati molti episodi in cui l’attivismo – e in specie quello di Greenpeace – è stato trattato alla stregua di ordinaria criminalità.

Ventotto attivisti di Greenpeace, un fotoreporter e un operatore video sono stati imprigionati per tre mesi, lo scorso autunno, in Russia (prima a Murmansk, poi a S. Pietroburgo) per aver protestato pacificamente contro le estrazioni di petrolio nell’Artico. Volevano difendere il clima e una delle aree più fragili e incontaminate del Pianeta dagli interessi delle compagnie petrolifere. Sono infine stati rilasciati, dopo un’esperienza detentiva molto dura e provante, e hanno beneficiato di una amnistia del governo russo. La nave sulla quale erano in azione, la Arctic Sunrise, è stata rilasciata dalle autorità russe solo pochi giorni or sono. E proprio oggi Pete Willcox, il comandante dell’Arctic Sunrise, ha ricevuto il prestigioso Observer Ethical Awards 2014.

Qualche mese dopo, nella notte tra il 7 e l’8 maggio, la polizia indiana ha fatto irruzione nei villaggi del Madhya Pradesh che stanno lottando contro la distruzione della foresta di Mahan, arrestando quattro persone con accuse false e incredibili di furto, aggressione e ostacolo alle attività del governo. Due di loro erano attivisti di Greenpeace, altri due invece esponenti del Mahan Sanghrarsh Samiti (MSS) il comitato che si batte contro la distruzione di quell’area per l’apertura di una miniera di carbone. Si erano opposti con successo alle attività di “marcatura degli alberi” (per il successivo abbattimento…) degli agenti di Essar, la compagnia che in joint venture con Hindalco vuol sbarazzarsi della foresta per estrarre la fonte energetica più sporca e nociva per il clima. Dopo un paio di giorni, mentre un centinaio degli abitanti dei villaggi rioccupava la foresta, tre dei quattro attivisti sono stati rilasciati; infine è stato rilasciato su cauzione anche l’ultimo.

 

Due mesi fa Greenpeace aveva chiesto l’aiuto di tutti coloro che la seguono e la sostengono per Rosina Gonzalez, una dei nostri climbers messicani, che stava rischiando una sentenza di reclusione fino a 10 anni. Pemex, una compagnia petrolifera messicana, l’aveva accusata di aver danneggiato un faro durante un’azione sul suo edificio a Veracruz. Per queste accuse, tutti i sei attivisti coinvolti in quell’azione stavano affrontando un processo penale. Rosina non aveva danneggiato nulla: aveva solo realizzato una protesta pacifica e nonviolenta chiedendo un futuro di energia pulita.

È notizia di poche ore fa: grazie alla pressione internazionale, alle migliaia e migliaia di persone che in tutto il mondo hanno chiesto il rilascio di questa giovane donna, Pemex ha deciso di far cadere le accuse e la corte penale ha deciso di sospendere il caso: tutti i 6 attivisti sono liberi e scagionati da ogni accusa!

Questa, come le altre qui sopra ricordate, sono vittorie importanti per Greenpeace. Il sostegno che riceviamo per chiedere che l’attivismo non venga equiparato a un crimine è sempre sorprendente, enorme e decisivo. Ci serve a ribadirlo: abbiamo il diritto, oltre che il dovere, di impegnarci in maniera pacifica e nonviolenta per difendere il Mondo in cui viviamo e lasciarlo quanto più possibile intatto a chi verrà dopo di noi.

Purtroppo le minacce che ci colpiscono – e che siamo pronti a fronteggiare – non si esauriscono mai. È cronaca anche questa di poche, pochissime ore fa: abbiamo ricevuto un decreto penale di condanna per 18 attivisti che hanno preso parte a due azioni distinte, una nel 2008 e una nel 2010, presso la centrale a carbone Enel di Civitavecchia e presso quel che resta della centrale nucleare di Montalto di Castro. Anche qui parliamo di azioni nonviolente e assolutamente pacifiche, dove non si sono registrati danneggiamenti di alcun genere. Anche qui parliamo di uomini e donne disposti a rischiare personalmente per il bene di tutti. Anche qui, distinguere tra attivismo e crimine dovrebbe essere fondamentale.

Perché ci battiamo, perché rischiamo, perché siamo disposti a prenderci denunce e condanne? Perché anche di questo c’è bisogno per far sentire la nostra voce. E perché abbiamo buone ragioni per farlo. Se solamente sette o otto anni fa qualcuno avesse detto che oggi, nel 2014, le fonti rinnovabili avrebbero contribuito a oltre il 40% della produzione nazionale di elettricità (come avvenuto lo scorso maggio), quel qualcuno si sarebbe sentito dare, da un rumoroso coro, del “visionario”. Ebbene: noi siamo i visionari. E abbiamo ragione.

Unisciti a noi, firma la petizione…

Andrea Boraschi, responsabile campagna Energia e clima