Il 15 settembre 1971, un manipolo di attivisti salpa per l’isola di Amchitka, al largo dell’Alaska, per fermare un test nucleare statunitense. I soldi per noleggiare la barca, ribattezzata per l’occasione “The Greenpeace”, sono stati raccolti con un concerto rock. Il piano degli attivisti è semplice: condurre l’imbarcazione fino al sito del test e impedire con la loro stessa presenza che la bomba venga fatta esplodere. Quando però a metà del viaggio il presidente Nixon annuncia che il test sarà rinviato di un mese, tra i membri dell’equipaggio si accende un dibattito sul destino della spedizione.
A bordo c’è anche il giornalista e attivista Bob Hunter. Questo è un estratto del suo resoconto su quei giorni fatidici che portarono alla nascita di Greenpeace.
“Quando sono tornato da Amchitka e mi sono seduto alla scrivania per scrivere un libro sulla spedizione, pensavo che fosse stata un fallimento ed ero arrabbiato. Avevamo sprecato l’opportunità di fermare i test nucleari per pura stupidità e per non essere riusciti a tenere i nervi saldi, tanto per usare un eufemismo.
Pensando al libro mi frullava in mente un titolo: “Cop-out on the Way to Amchitka” (Una scappatoia nel viaggio verso Amchitka). Sentivo che la mia personale debolezza aveva contribuito all’incapacità di portare a termine la missione. Peggio ancora, temevo di aver inconsciamente buttato all’aria la possibilità di continuare il viaggio. Avrei dovuto conviverci finché non fossi morto, o il mondo fosse esploso, o qualunque altra cosa sarebbe successa prima.
In quei giorni dovevo affrontare il dilemma più serio della mia vita di scrittore. Fin dall’infanzia, quando iniziai a scribacchiare storie di fantascienza, ero andato in cerca di “esperienza”. Come tutti i giovani scrittori, avevo molto da dire, ma scarsa conoscenza del mondo. Avevo letto qualcosa, ma dove vivevo non c’erano state pestilenze, né crociate, né guerre recenti. Persino durante la grande inondazione del fiume Red River, nel 1950, la mia famiglia fu evacuata prima che le dighe cedessero. L’avventura era difficile da scovare nella quotidianità della classe operaia di Winnipeg del periodo post-bellico, uno dei più piatti e noiosi della storia del Canada.
Le uniche avventure che avevo vissuto erano state di tipo ordinario: storielle romantiche, viaggi che avevo fatto o vicende della mia infanzia. Avevo campeggiato in solitaria nella foresta boreale e fatto un po’ di autostop nel Canada occidentale e in Europa. Mi ero sposato e avevo avuto due figli. Avevo iniziato un’interessante carriera giornalistica e pubblicato tre libri. Ma fino a quel fatidico viaggio, nell’autunno del 1971, non mi era mai successo nulla di cui valesse davvero la pena di scrivere. E ora che era successo, non potevo scriverne per il bene della causa.
Sì, avevo deciso di aderire alla causa. Anche se, a dire il vero, non era molto chiaro a che cosa esattamente avessi deciso di aderire, dato che tutto era ancora in via di definizione. Di certo avevo smesso di osservare quel che accadeva dall’esterno, restandone fuori.
Avevo cominciato come editorialista, l’ultimo outsider ismaeliano, abituato a non essere responsabile di nient’altro che dell’autenticità delle mie intuizioni e delle mie parole. “Dì le cose come stanno” era il credo della controcultura e il mio mantra personale. D’improvviso, invece, mi trovavo nella ristretta cerchia di una nascente organizzazione politica, con un po’ di potere in mano, che al tempo sembrava in grado di cambiare il corso della storia. Dovevamo solo portare una barca, la Phyllis Cormack, ribattezzata per l’occasione Greenpeace, all’isola di Amchitka e mollare gli ormeggi sotto il naso di una bomba nucleare, nome in codice Cannikin. Poteva esserci qualcosa di più facile?
Invece andò tutto storto. Non siamo mai riusciti ad andare nella direzione in cui volevamo andare, né trovarci nel posto in cui volevamo essere. E per questo non abbiamo fatto che litigare tra noi. Volevamo salvare il mondo con il nostro esempio morale, emulando nientemeno che i quaccheri, e invece passavamo il tempo a urlare l’uno contro l’altro, in uno scontro di ego, dentro un gruppo sempre più diviso.
Trent’anni dopo, quando la sua barba grigia era ormai diventata bianca, Jim Bohlen, davanti a un bicchiere, mi ha confessato che durante il viaggio aveva impartito in segreto gli ordini di navigazione al capitano. Bohlen era il presidente del Comitato Don’t Make a Wave, nonché la persona che aveva firmato gli assegni per noleggiare la barca, perciò aveva tutta l’autorità legale per farlo. Ma piuttosto che dirci che era lui il capo, e che aveva gestito la nave e l’azione di protesta con una struttura gerarchica vecchio stile, aveva preferito illuderci con dei giochetti. Come la promessa che la nave sarebbe stata governata per consenso: ognuno di noi avrebbe avuto il potere di veto. All’epoca, era considerata l’ultima moda in fatto di condivisione del potere, e anch’io ci credevo.
Ma era una farsa. Non appena rientravamo nelle nostre cuccette, Bohlen prendeva tutte le decisioni in autonomia. All’epoca non avevo idea di cosa combinasse dietro le quinte. C’erano giorni in cui la barca navigava in direzione opposta alla rotta concordata la sera prima. Oggi devo ringraziarlo per aver agito con astuzia, maturità e prudenza, ma allora ci lasciò sconcertati. Probabilmente saremmo morti se non avesse assunto il controllo. Ma in quei giorni ho complottato per rovesciare la sua leadership perché avevamo capito che stava facendo il furbo.
Ben Metcalfe, l’altro veterano di guerra a bordo, nonché la vera mente della campagna mediatica, aveva cospirato con Bohlen per riportarci a casa vivi. Era maturo abbastanza da non vedere alcun motivo di farci ammazzare tutti. Aveva combattuto nella Guerra del Deserto contro Rommel, aveva disobbedito agli ordini della RAF di bombardare i seguaci di Gandhi, ed era talmente più avanti di me rispetto a quella cosa sfuggente chiamata esperienza che non c’era alcun dubbio sul fatto che in materia di vita o di morte la sapesse più lunga di quei giovani e ingenui ribelli. Era una vecchia canaglia sopravvissuta alla guerra. Un genio, a pensarci adesso, da cui avevo solo da imparare.
Ma chi ha davvero deciso le sorti di quel primo viaggio di Greenpeace è stato John C. Cormack, il capitano e proprietario della barca, che aveva accettato di condurre il suo peschereccio nella zona dei test nucleari solo per disperazione economica. Col senno di poi, in quei momenti critici ha salvato la barca e tutti noi. E noi abbiamo salvato la faccia, almeno quanto bastava per tornare a casa.
II giorno prima di tornare a Vancouver, mentre eravamo accasciati in cambusa, esausti, Bohlen annunciò che avrebbe chiuso il Comitato Don’t Make a Wave non appena ne avesse avuto l’occasione. Era stato costituito ad hoc e aveva fatto il suo dovere. Gli ho detto di non farlo. Perché sprecare tutto quel sudato capitale di attenzione mediatica che avevamo ricevuto? Ho proposto di sciogliere il comitato, ma per ricostituirlo come Fondazione Greenpeace.
Questo è stato il mio contributo più importante, sebbene non abbia ancora trovato posto nel mio manoscritto. Era solo un seme di speranza per una futura rivoluzione, e io non mi sentivo così fiducioso mentre, sballottato dalle onde nel porto di Steveston, affranto e ricoperto di medicazioni, mi apprestavo a scrivere la storia del nostro fallimento. Alla fine ho raccontato la verità per come la vedevo allora, presumibilmente per com’era, senza badare alla lealtà per la causa.
Come capimmo in seguito, tutta quell’angoscia era inutile. Il tempo ha svelato che la mia disperazione alla fine del viaggio era solo un abbaglio. La spedizione era stata un successo che andava al di là dei nostri sogni più sfrenati. È vero, la bomba era esplosa, ma quelle dei test successivi non lo hanno mai fatto. Il programma di test nucleari ad Amchitka fu cancellato cinque mesi dopo la nostra missione, e alcuni studiosi sostengono che quello sia stato l’inizio della fine della Guerra Fredda.
In ogni caso, quel viaggio ad Amchitka non ci ha lasciato in eredità solo un gruppo di ragazzi su una barca da pesca, bensì la Greenpeace che il mondo intero ha imparato ad amare e a odiare.”
Oggi Greenpeace è l’organizzazione ambientale più attiva nel mondo, con uffici in più di 55 paesi e oltre 2,9 milioni di sostenitori. Amchitka era solo l’inizio di quella che sarebbe diventata una storia molto più grande.
Estratto da “The Greenpeace to Amchitka” di Bob Hunter, pubblicato da Arsenal Pulp Press, Canada.
Riprodotto per gentile concessione del giugno 2004.