Il 18 settembre 2013, alle 02.34 del mattino, quattro gommoni lasciano la nave di Greenpeace Arctic Sunrise verso una piattaforma petrolifera Gazprom, la Prirazlomnaya, nel Mare Artico. Gli attivisti tentano di salire e stabilirsi sulla struttura esterna della piattaforma per protestare contro la corsa al petrolio in ambiente artico, che rischia di danneggiare un ecosistema così delicato, oltre a estrarre più greggio di quanto l’umanità possa permettersi di bruciare. La Prirazlomnaya è il primo impianto di produzione di petrolio in mezzo all’Artide, in acque piene di ghiaccio. La cultura della sicurezza sulla piattaforma è una barzelletta: Greenpeace lo sa, lo ha documentato con foto e video, e questo amplifica la preoccupazione verso l’imminente avvio delle perforazioni.
Artide e Antartide sono indicatori dello stato di salute del pianeta e mandano un segnale chiaro: l’uomo sta compromettendo la capacità della Terra di sostenere la vita come la conosciamo. È già troppo tardi per evitare effetti negativi sugli ecosistemi polari. Siamo ancora in tempo, però, per evitare ulteriori impatti, mettendo un freno all’espansione delle flotte pescherecce, all’industria estrattiva di combustibili fossili (petrolio, gas, carbone) e alle altre minacce che rischiano di completare il saccheggio e la contaminazione di Artico e Antartide. L’istituzione di riserve, terrestri e marine, è la migliore soluzione per preservare entrambi i poli.
Un modello è quello del “protocollo di protezione ambientale”, all’interno del Trattato per l’Antartico, approvato a Madrid il 4 ottobre 1991: una delle grandi vittorie del movimento ambientalista, e di Greenpeace. Anche se nell’Artico la situazione è differente: innanzitutto, l’Antartide è un continente, remoto, mentre l’Artide ha al suo centro il Mar Glaciale Artico, con la banchisa che galleggia sulla sua superficie, circondato da isole e altre terre emerse appartenenti ad Asia, Europa e America. Le nazioni che si affacciano sull’Artico, inoltre, avanzano pretese di carattere territoriale su ampie porzioni della regione. Anche lo scenario geopolitico è diverso: se nel 1991, l’Unione Sovietica stava vivendo gli ultimi giorni di vita, e la parola d’ordine era cooperazione, la Russia condotta da Vladimir Putin è tornata a fare la voce grossa sul piano internazionale. In particolare sull’Artico, che considera poco più di uno specchio d’acqua casalingo.
Come una protesta pacifica si trasformò in un sequestro
Così, mentre due climber iniziano a scalare la Prirazlomnaya, la vicina nave della Guardia costiera russa risponde rapidamente lanciando a sua volta alcuni gommoni, con a bordo agenti mascherati con passamontagna. Gli agenti colpiscono ripetutamente i gommoni di Greenpeace, provando a squarciarli con i coltelli, mentre alcuni di loro minacciano gli attivisti puntando pistole e armi automatiche. L’equipaggio dell’Arctic Sunrise conta almeno undici colpi sparati. Gli agenti catturano i climber Sini e Marco, che erano riusciti a salire sulla struttura prima di essere costretti a ritirarsi da cannoni d’acqua e dai colpi di avvertimento. Gli altri attivisti, con i gommoni, riescono a rientrare sull’Arctic Sunrise che rimane nelle vicinanze, a più di tre miglia nautiche dalla Prirazlomnaya.
Il 19 settembre, apparentemente, si presenta tranquillo. La Guardia Costiera russa descrive Marco e Sini come “ospiti”, ma ogni richiesta di parlare con loro da parte dell’Arctic Sunrise o degli avvocati viene lasciata cadere. Per quanto è dato sapere, nessuna accusa viene formulata nei loro confronti. La situazione, tuttavia, sta per precipitare. Telefonate e tweet dall’Arctic, infatti, segnalano un elicottero che si muove sopra la nave. Alcuni agenti scendono sul ponte con le corde: è un vero e proprio arrembaggio, al di fuori delle acque territoriali russe, di una nave battente bandiera olandese, e senza alcuna base giuridica. Mentre i russi prendono possesso dell’Arctic, tre persone riescono a chiudersi nella sala radio da dove forniscono una testimonianza oculare degli sviluppi. Per poco, però, perché a breve anche la sala radio viene occupata. Sini e Marco vengono riportati a bordo. I media russi riferiscono che l’Arctic Sunrise sarà condotta a Murmansk, in Russia.
A questo punto è chiaro che l’Arctic Sunrise è stata messa sotto sequestro, e che l’equipaggio è in arresto, anche se l’ufficialità arriverà successivamente. Ha inizio l’odissea nel sistema carcerario russo degli “Arctic30”: sono infatti trenta persone (due sono giornalisti), provenienti da numerosi paesi, inclusa l’Italia di Cristian D’Alessandro, il nostro attivista membro dell’equipaggio. L’accusa per tutti, anch’essa formulata nei giorni successivi, è di “pirateria”, che da sola può garantire fino a quindici anni di carcere in Russia. Poi l’accusa sarà cambiata in “hooliganism”, una cosa tra il “teppismo” e il “vandalismo”: sembra meglio, ma si tratta sempre di sette anni di condanna…
Il mondo in protesta
Complice il fuso orario, le prime proteste si tengono a Washington DC, negli Stati Uniti, la stessa sera del 19 settembre. Più di trenta paesi seguono il giorno dopo: l’ufficio italiano, insieme agli attivisti romani, guidati da un “orso bianco” simbolo della campagna “Save The Arctic”, organizza un sit-in di fronte all’ambasciata russa. La campagna per la liberazione dell’Arctic Sunrise e del suo equipaggio si svolge sotto l’ombrello dell’hashtag “#FreeTheArctic30”, e occuperà a tempo pieno Greenpeace, a livello globale, fino alla vigilia di Capodanno, quando anche l’ultimo attivista sarà tornato a casa. Vede il coinvolgimento di tribunali internazionali, capi di Stato, testimonial come Paul McCartney e Madonna, la mobilitazione di milioni di cittadini, e attività incessanti di lobby e comunicazione: tutto finalizzato a far recedere le autorità russe dal loro intento di persecuzione.
Greenpeace Italia non è da meno. Continui sono i contatti con le istituzioni, dal Ministero degli Affari Esteri alle strutture consolari in Russia, fino alla Presidenza della Repubblica. Al Parlamento viene rivolto un appello per la liberazione degli “Arctic30” sottoscritto da 139 parlamentari. Al Festival di Internazionale di Ferrara e sul Maschio Angioino a Napoli – città di origine di Cristian d’Alessandro – vengono esposti striscioni. Ampia solidarietà anche dal mondo accademico, della cultura, dell’arte, dello spettacolo e da parte del Terzo Settore. Mentre interviene il Premio Nobel Dario Fo, un sostegno inaspettato arriva dall’amministratore delegato di ENI, Paolo Scaroni, che rende nota una lettera inviata a Gazprom (partner industriale di ENI) nella quale si sottolinea il carattere pacifico delle proteste di Greenpeace.
La stampa nazionale risponde inizialmente in maniera tiepida al sequestro dell’Arctic Sunrise, ma l’attenzione cresce di fronte alle accuse di pirateria. L’angolo preferito dai media è quello “nazionalista”, sottolineando la presenza di un italiano tra gli attivisti detenuti a Murmansk. Non mancano, però, servizi di approfondimento su quotidiani e magazine che collegano la situazione degli Arctic 30 alle mire dei giganti petroliferi nell’Artico. “Repubblica” e “Corriere della Sera” si espongono con i loro commentatori, e così fa Luciana Littizzetto alla Rai. Notevole eco hanno le azioni che contestano Gazprom, sponsor di importanti eventi sportivi, come alla “Barcolana” di Trieste e poi in Champions League, in occasione della partita Napoli-Arsenal.
Il rilascio e la condanna della Russia
A novembre, gli “Arctic30” vengono rilasciati dal carcere, ma obbligati a rimanere in Russia. A dicembre, le autorità russe escogitano lo stratagemma di una amnistia per liberarli definitivamente e permettere il rientro a casa. Nel 2015, abbordaggio, sequestro e detenzione della nave vengono dichiarati illegali da parte del Tribunale dell’Aja. Nel 2017, l’arbitrato internazionale si conclude con la condanna della Russia a risarcire oltre 5 milioni di euro di danni. Nel 2023, a dieci anni esatti dal caso, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che la Russia arrestò arbitrariamente i 28 attivisti di Greenpeace e i due giornalisti freelance, violando il loro diritto alla libertà di espressione.
Nel frattempo, la campagna “Save The Arctic” ha unito più di otto milioni e mezzo di persone. Nel marzo del 2014, il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione a sostegno dell’istituzione di un’area protetta al Polo Nord che vieti l’estrazione di petrolio e la pesca industriale. L’obiettivo è ancora lontano. Ma se c’è qualcuno che può raggiungerlo è il grande, variegato movimento globale creato da Greenpeace attorno alla campagna per l’Artico. E alla quale gli Arctic 30 hanno coraggiosamente prestato i propri corpi e un piccolo pezzo della loro vita.