Di Sofia Basso, campaigner Pace e Disarmo, Greenpeace Italia

In risposta all’attacco statunitense contro i siti nucleari iraniani, il 22 giugno il Parlamento di Teheran ha approvato la chiusura dello Stretto di Hormuz. Già il 23 giugno, nelle sue comunicazioni alla Camera dei deputati, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni segnalava che l’Italia stava “monitorando Hormuz, uno stretto strategico per l’economia globale, capace di condizionare il prezzo del petrolio e dell’energia a livello mondiale”. Il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, ha subito chiamato l’omologo iraniano per chiedere di non chiudere lo Stretto. “Noi comunque – ha dichiarato Tajani alla stampa – manteniamo nell’area le navi della missione Aspides, quelle in funzione anti-Houthi”.
Fino al 2024, l’Italia aveva una missione specifica nello Stretto di Hormuz, l’European Maritime Awareness in the Strait of Hormuz, “operativa – come si legge nella Relazione annuale sulle missioni militari in corso inviata al Parlamento nel luglio 2022 – dal gennaio del 2020, a seguito delle azioni di sabotaggio ai danni di petroliere di varie nazionalità nell’estate 2019 nello Stretto di Hormuz, da cui passa circa un terzo del petrolio movimentato via mare”. In pratica, una delle tante operazioni militari a tutela delle rotte del petrolio e del gas che vedono impegnata l’Italia, a conferma non solo del peso degli interessi fossili nelle scelte politiche italiane, ma anche del fallimento della transizione energetica del nostro Paese.
Nonostante i noti effetti delle fonti fossili sulla crisi climatica e sulla pace, il 2025 segna un record di spesa per le missioni militari italiane a tutela delle fonti fossili, passate dai circa 840 milioni di euro del 2024 agli oltre 900 milioni di euro di quest’anno, pari al 61 per cento del budget totale per le missioni militari italiane, in stabile aumento dal 2019 a oggi, con un trend inverso a quello previsto dalla decarbonizzazione.
In particolare, l’aumento si concentra nell’area del Mar Rosso, dove gli attacchi degli Houthi hanno fatto scattare, nel febbraio 2025, la missione europea Aspides, fortemente voluta dall’Italia e citata, appunto, da Tajani in relazione allo Stretto di Hormuz. Se ufficialmente Aspides è a “salvaguardia della libera navigazione e a protezione del naviglio mercantile”, di fatto tutela le rotte del gas e del petrolio, visto che – prima degli attacchi degli Houthi – dal Canale di Suez passava circa un terzo dell’import italiano di greggio e di gas liquefatto. La spesa per le missioni militari nell’area è più che raddoppiata, passando dai 42 milioni di euro del 2024 ai 105 milioni del 2025. Difficile comunque fare un paragone dettagliato tra gli impegni del 2024 e quelli del 2025, poiché quest’anno i costi sono stati aggregati per aree geografiche, non per singole missioni come nel passato, riducendo così la trasparenza sull’allocazione dei fondi.
L’importanza della “sicurezza energetica” – declinata sempre e solo in termini di fonti fossili – è riconosciuta esplicitamente anche nell’ultima relazione governativa sulle missioni militari internazionali, inviata al Parlamento a fine febbraio 2025. La prima linea guida a cui si informa l’impianto per le operazioni all’estero delle Forze armate italiane è infatti inequivocabile: “Perseguire interessi nazionali, conferendo priorità alla sicurezza energetica”. Anche nell’illustrare le attività della Difesa italiana in Medio Oriente, il documento governativo insiste sul contributo “alla stabilizzazione, sviluppando relazioni bilaterali, anche in chiave di sicurezza energetica”.
Confermate anche per il 2025 le due missioni nazionali che, sin dalla loro istituzione, hanno il mandato esplicito di proteggere le piattaforme di ENI, uno dei principali responsabili della crisi climatica: la missione Mediterraneo Sicuro che, dal 2015, ha come prima attività la “sorveglianza e protezione delle piattaforme dell’ENI ubicate nelle acque internazionali prospicienti la costa libica”; e il dispositivo aeronavale nel Golfo di Guinea che, sin dal 2021, ha come primo compito “proteggere gli asset estrattivi di ENI, operando in acque internazionali”. Confermate anche tutte le operazioni militari nel Mediterraneo orientale, nuovo eldorado del gas, come pure le missioni in Libia, in Mozambico e nel Corno d’Africa, tutte aree dove il Cane a Sei Zampe opera da tempo.
Nel febbraio 2023, era stato lo stesso Capo di Stato Maggiore della Marina militare, Enrico Credendino, a sottolineare come la mappa del dispiegamento delle Forze armate italiane coincida quasi esattamente con quella del nostro approvvigionamento energetico. Il ritornello della “sicurezza energetica” viene così utilizzato sia per giustificare l’aumento della spesa militare e della militarizzazione delle aree di crisi, sia per rafforzare la nostra dipendenza dalle fonti fossili. A danno della transizione energetica e della pace.
Spesa 2025 per le missioni militari a tutela fonti fossili
MISSIONE MILITARE | AREA OPERATIVA | SPESA 2025 |
Mediterraneo Sicuro, Irini, Sea Guardian, Sorveglianza navale Sud NATO | Mediterraneo centrale e orientale | 234.658.134 € |
MIASIT/ Fianco Sud NATO | Libia | 22.974.194 € |
Coalizione anti-Daesh/ Nato Iraq/ Personale militare Medio Oriente | Iraq, Golfo Persico | 272.807.486 € |
Missione Aspides, Atalanta e altre nell’area | Mar Rosso, Golfo Persico | 105.478.402 € |
EUTM Somalia, Gibuti, Mozambico | Somalia e Mozambico | 42.772.148 € |
UNIFIL, MIBIL | Libano, Mediterraneo orientale | 177.640.912 € |
Spesa missioni “fossili” (senza costi di supporto) | 856.331.276 € | |
Totale spese missioni Difesa (senza costi di supporto) | 1.401.000.000 € | |
Percentuale spesa missioni “fossili” sul totale della spesa per le missioni | 61% | |
61% dei costi di supporto | 48.190.000 € | |
Totale spesa missioni militari “fossili” | 904.521.276 € |
Fonte: Elaborazione di Greenpeace Italia su dati della Relazione missioni internazionali 2025