
Sono passati diciotto anni da quando Chiara Campione, palermitana, laurea in Scienze Agrarie, ha varcato la soglia dell’ufficio di Greenpeace Italia come responsabile della campagna Foreste. Passando, negli anni seguenti, al ruolo di Global Project Leader delle campagne #Detox e #MakeSMTHG di Greenpeace International. Nel 2024, il salto alla co-direzione del Programma dell’ufficio italiano e, ora, la nomina a Direttora Esecutiva, in sostituzione di Giuseppe Onufrio che abbiamo salutato nel numero precedente di Greenpeace News.
Chiara, conosciamo la tua lunga storia all’interno di Greenpeace Italia, e i ruoli rivestiti. Puoi raccontarci qualcosa del percorso personale e professionale che ti ha portato a dirigere questa organizzazione?
Non è stata una strada lineare, né disegnata in anticipo. Sono entrata in Greenpeace diciotto anni fa e, da allora, ho attraversato quasi tutto: campagne, azioni, lavoro internazionale, direzione del programma. Ogni ruolo è stato un modo diverso di imparare cosa significa cambiare qualcosa nel mondo reale, e non solo nella propria testa. Ho visto trasformazioni dentro e fuori l’organizzazione, ho condiviso vittorie e momenti in cui sembrava che nulla si muovesse. È lì che ho capito che guidare non significa avere tutte le risposte, ma cercarle insieme agli altri. Oggi porto con me questa storia collettiva, con la responsabilità di farla avanzare e non conservarla soltanto.
Qual è stato il momento o l’esperienza che ti ha avvicinata alla causa ambientale? Quali sono i valori personali che più ti guidano nel tuo impegno per l’ambiente?
Da bambina, in braccio a mio padre o a cavalluccio sulle spalle di mia madre, nelle manifestazioni pacifiste contro l’installazione dei missili nucleari a Comiso, guidate da Pio La Torre. Poi, da ragazza, le mie prime azioni contro il deposito di scorie nucleari a Pasquasìa. In Sicilia capisci presto che la terra è qualcosa che si difende con il corpo, con la voce e insieme agli altri. I valori che mi guidano restano quelli imparati allora: giustizia, indipendenza, responsabilità verso chi verrà dopo.
Attivisti si nasce o si diventa? Qual è il tuo pensiero in materia?
Sono nata in una famiglia di attivisti: un nonno partigiano, un padre militante, una madre femminista. L’impegno non era un concetto, era il modo in cui si stava al mondo. Non so se l’attivismo l’ho scelto o se, in qualche modo, mi ha trovato prima che sapessi dargli un nome. Ma non credo ai destini biologici, né alle vocazioni ereditate. Si può nascere dentro una storia, ma poi bisogna deciderla, confermarla, persino contraddirla quando serve. Si diventa attivisti scegliendo, giorno dopo giorno, di non abituarsi all’ingiustizia e di non scivolare nell’indifferenza.
Dopo un breve periodo di affiancamento, hai sostituito definitivamente Giuseppe Onufrio, che è andato in pensione dopo più di quindici anni di direzione di Greenpeace Italia. Con quale spirito assumi questa responsabilità e quale pensi che sia il lascito che erediti da Pippo?
Entro in questo ruolo con senso di responsabilità e con la consapevolezza che guidare un’organizzazione come Greenpeace significa unire ambizione e cura, visione e concretezza quotidiana. Non si tratta solo di continuare un percorso, ma di farlo evolvere, aprendo nuove possibilità e nuovi spazi di partecipazione. Da Pippo ho imparato che il coraggio non è una posa: è restare presenti anche quando le cose si fanno difficili, è parlare chiaro, è non perdere di vista la sostanza. E che si può essere seri senza diventare rigidi, radicali senza perdere leggerezza. La lezione più importante è stata quella della fiducia e del lavoro condiviso: il cambiamento si costruisce insieme, discutendo quando serve e sostenendosi a vicenda.
Qual è lo stato di Greenpeace Italia oggi?
Greenpeace Italia è solida, indipendente e riconosciuta per il suo lavoro. Questo ci permette di parlare con chiarezza e agire senza compromessi. Allo stesso tempo stiamo cambiando: diventiamo più agili, più inclusivi e più capaci di trasformare le idee in risultati concreti. È un momento di rinnovamento, che affrontiamo con serietà e senso di responsabilità. Siamo in movimento, come è giusto che sia.
Qual è la tua visione per il futuro dell’ufficio italiano? Quale indirizzo intendi dare alla tua direzione?
Voglio una Greenpeace Italia ancora più efficace e più aperta. Un’organizzazione capace di dire la verità con radicalità e trasformarla in risultati tangibili. Questo significa rafforzare le nostre campagne contro i poteri fossili e chi ostacola la transizione, ma anche costruire alternative concrete: energia pulita e accessibile, tutela dell’acqua, un Mediterraneo protetto, un modello agricolo che rispetti la terra e le comunità. E significa allargare il nostro raggio. Parlare non solo a chi è già convinto, ma anche a chi è incerto, curioso, magari diffidente. Portare più persone dentro questa storia, dare strumenti, creare partecipazione vera. Vedo Greenpeace Italia come un luogo di coraggio e di competenza, ma anche di ascolto. Un movimento che sappia innovare, lavorare in squadra e prendersi cura delle persone che lo compongono. Perché la forza delle nostre idee dipende dalla qualità delle relazioni che le rendono possibili.
Quali sono le tue priorità nei primi dodici mesi da direttrice?
Rendere l’organizzazione più agile e più aperta. Mettere a terra le nostre strategie con precisione, meno dispersione, più impatto. Rafforzare la cultura interna: responsabilità, collaborazione, fiducia. E continuare a portare dentro nuove persone, perché un movimento vive del suo respiro collettivo.
Quale pensi che sia il ruolo interpretato dall’ufficio italiano di Greenpeace nell’ambito della missione globale dell’Organizzazione?
L’Italia oggi è un fronte cruciale della giustizia climatica. Il nostro contributo è doppio: sfidare i poteri fossili nel loro cuore — a partire da ENI — e costruire alternative credibili sul territorio. Negli ultimi anni siamo diventati una voce rilevante nelle campagne globali, e voglio che continuiamo così: radicati qui, con lo sguardo fuori.
Quali sfide ambientali considerI più urgenti nel contesto italiano e come si collegano a quelle su scala globale?
La crisi climatica, l’acqua che manca, il mare che soffoca. E un’agricoltura che deve uscire dall’allevamento intensivo e tornare ad essere cura del suolo e delle comunità. Tutto questo non è solo italiano: è il Mediterraneo come frontiera ecologica e geopolitica. Un luogo dove si vede, in piccolo, cosa accade al mondo intero.
Uno dei primi eventi ai quali hai partecipato, al festival del manifesto, è stato dedicato allo stato della transizione ecologica a livello globale. Come giudichi le politiche ambientali italiane rispetto agli obiettivi fissati a livello europeo e internazionale (es. Green Deal, COP)? Cosa pensi della transizione ecologica in corso in Italia e in Europa? Sta andando nella direzione giusta?
L’Italia vive la transizione come se il tempo fosse infinito. Non lo è. E ogni esitazione, qui come in Europa, diventa spazio per chi vuole rallentare. Basta una frase di Trump e mezzo continente frena: l’agenda fossile detta ancora i tempi, anche a distanza. Intanto la Cina corre sulle tecnologie pulite, pur restando legata al carbone. Avanza tra contraddizioni, mentre noi discutiamo sul passo. La transizione non è uno slogan. È lavoro, scelte, coerenza. Difendere il Mediterraneo, proteggere l’acqua, abbandonare le fonti fossili, trasformare l’agricoltura: non sono ambizioni astratte, sono le basi della vita quotidiana di domani. Chi rallenta oggi sceglie da che parte della storia stare.
Che ruolo gioca Greenpeace nel dialogo con le istituzioni italiane sulla questioni ambientali? In che modo Greenpeace può contribuire a rendere più ambiziosa la transizione ecologica in Italia?
In questo momento il dialogo con il governo è limitato. Non per scelta nostra, ma per orientamento politico: questo è un esecutivo che vede ancora i combustibili fossili come una strada, non come un problema, e che considera la transizione più un freno che un’opportunità. Noi continuiamo a fare il nostro lavoro: portare dati, proporre alternative, chiedere trasparenza e responsabilità. Quando c’è spazio per collaborare, lo facciamo. Quando non c’è, costruiamo pressione pubblica, tuteliamo i diritti e raccontiamo cosa c’è in gioco. Rendere la transizione più ambiziosa significa smascherare ciò che ci riporta indietro e costruire consenso per ciò che ci porta avanti.
Come giudichi il livello di consapevolezza ambientale in Italia? Dove si può fare di più? Che cosa pensi Greenpeace possa fare per coinvolgere giovani, comunità locali e anche le persone apparentemente meno impegnate su questi temi?
La consapevolezza è cresciuta, ma non basta. C’è ancora chi vive l’ambiente come un tema laterale, finché non lo tocca: l’acqua che manca, il caldo estremo, l’aria irrespirabile. Il punto è parlare anche a chi non si definisce ambientalista. Raccontare storie che riguardano la vita quotidiana: salute, lavoro, sicurezza, futuro dei figli. E creare spazi di partecipazione semplici, aperti, non elitari. La transizione si fa con chi c’è — e con chi non è ancora arrivato.
Domanda finale. Che messaggio ti senti di lanciare a chi in Italia vuole contribuire concretamente alla difesa dell’ambiente?
Nessuno si salva da spettatore. Ogni gesto conta: una scelta, una voce, un impegno, una presenza. Ma soprattutto conta farlo insieme. Non serve essere perfetti; serve essere presenti. Il cambiamento non arriva tutto in una volta: nasce da piccoli atti ostinati. Scegliete un posto nella storia. E occupatelo.

