Sono più di 30 le nazioni che chiedono di fermare l’inizio delle estrazioni minerarie in alto mare, il cosiddetto deep sea mining, con cinque nuovi governi che hanno annunciato il sostegno a una pausa precauzionale o a una moratoria. La notizia è arrivata a poche ore dal termine dei negoziati dell’International Seabed Authority (ISA), l’ente delle Nazioni Unite chiamato a regolamentare queste attività nei fondali oceanici in acque internazionali. Tuvalu, che in precedenza aveva sponsorizzato l’esplorazione mineraria in alto mare, si è unita a Austria, Honduras, Guatemala e Malta nell’annunciare la nuova posizione contraria allo sfruttamento minerario degli oceani, portando il totale a 32 nazioni del Pacifico, dell’Europa, dei Caraibi e dell’America Latina. Timidi segnali positivi anche dall’Italia che, nonostante abbia spesso espresso posizioni pro-industria, ha avuto un approccio più cauto rispetto al recente passato.
È questo lo scenario alla vigilia della chiusura del round negoziale in corso a Kingston, in Giamaica: un meeting importante perché vedrà l’elezione del nuovo segretario generale dell’ISA. In corsa l’attuale segretario Michael Lodge, da sempre vicino alle posizioni dell’industria estrattiva, e Leticia Carvalho, una scienziata oceanografa, più favorevole alla protezione degli ecosistemi marini.
«Questi negoziati rappresentano un momento importante per il futuro degli oceani, perché in questo momento in Giamaica si stanno decidendo i termini per dare il via libera a una pericolosa nuova forma di sfruttamento degli abissi», spiega Valentina Di Miccoli, campaigner Mare di Greenpeace Italia. «Abbiamo però la possibilità di fermare il deep sea mining ancora prima che abbia inizio, anteponendo al profitto di pochi la salute degli ecosistemi marini, da cui dipende anche il benessere di tutti noi. Per questo anche l’Italia dovrebbe al più presto schierarsi per una pausa precauzionale o una moratoria».
Quelli appena trascorsi, sono stati giorni intensi di discussioni a cui ha partecipato un numero di governi senza precedenti, a dimostrazione della crescente importanza politica e dell’interesse dell’opinione pubblica verso l’attività estrattiva in acque profonde. Alla 29esima edizione dei negoziati si sta per decidere il futuro del deep sea mining, nuova forma di sfruttamento per ricavare minerali come cobalto, nichel, rame e manganese. Il codice minerario però, per regolamentare questa nascente industria, ancora non è stato definito: al momento esiste solo una bozza che non permette il rilascio delle licenze necessarie alle industrie per cominciare le loro attività nei fondali oceanici.
Durante questi negoziati, per la prima volta, è stato inserito in agenda un punto per stabilire una politica generale per la protezione dell’ecosistema marino che potrebbe aprire il percorso legale verso una pausa precauzionale o una moratoria sul deep sea mining. Cresce, al contempo, l’opposizione a livello globale della società civile.
In questo scenario, timidi segnali positivi arrivano anche dalla delegazione italiana che ha sostenuto la necessità di definire un codice minerario prima di iniziare le attività estrattive negli abissi marini. Un approccio più cauto rispetto a quello di alcuni ministri del governo Meloni che, nei mesi scorsi, avevano espresso pericolosi segnali di apertura verso questo tipo di industria. L’Italia, però, al momento non sembra volersi allineare ai Paesi che aderiscono a una moratoria o al principio precauzionale.
Aumenta, intanto, la consapevolezza degli impatti distruttivi che questa industria avrà sull’ecosistema marino: durante il meeting è stata infatti sottolineata la scarsa conoscenza attualmente disponibile dei fondali oceanici di alto mare. È inoltre recente la notizia della produzione di ossigeno (della quale ancora non si conoscono nel dettaglio i processi) nei fondali della Clairon-Clipperton zone, proprio l’area del Pacifico interessata alle estrazioni di noduli polimetallici.