Il fast fashion non è un problema che riguarda solo la moda: è una questione sociale, ambientale e sanitaria che riguarda tutti noi. Ma a pagarne il prezzo, come spesso accade, sono soprattutto i Paesi a Sud del mondo. Se è vero infatti che ogni anno 83 milioni di tonnellate di rifiuti tessili finiscono nel mondo tra inceneritori, discariche e corsi d’acqua, una quota enorme – quasi la metà di quelli prodotti nell’Unione Europea – prende la via dell’Africa, trasformando il continente in una discarica globale dell’industria della moda.
Lo rivela Draped in Injustice, il nuovo report di Greenpeace Africa che documenta l’impatto devastante degli abiti di seconda mano che finiscono in Africa, spesso invendibili e destinati fin da subito a diventare rifiuti.

Una crisi globale che esplode in Africa
Sono enormi le quantità di abiti usati che finiscono in Africa, ma non certo per filantropia. Angola, Kenya, Tunisia, Benin, Ghana e Repubblica Democratica del Congo sono tra i Paesi maggiormente colpiti: nel solo 2022 hanno importato quasi 900mila tonnellate di indumenti usati provenienti dall’Unione Europea
E il dato è ancora più allarmante se si considera che spesso il 50% di questi capi è inutilizzabile a causa di danni o scarsa qualità. In Kenya, ad esempio, nel 2021 sono arrivati 900 milioni di capi di seconda mano, metà dei quali ha finito per intasare discariche come quella di Dandora o per inquinare il fiume Nairobi.
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Il caso del Ghana: un Paese sotto l’assedio del fast fashion
Emblematica la situazione in Ghana, dove ogni settimana arrivano circa 15 milioni di capi usati.
L’inchiesta di Greenpeace Africa e del team investigativo Unearthed ha recentemente documentato l’enorme sversamento di abiti scartati dal Regno Unito in una zona umida protetta vicino ad Accra, habitat prezioso per tre specie di tartarughe marine. In un’altra discarica che si trova sulle rive del fiume che conduce all’area, sono stati trovati anche abiti smessi di marchi noti come Zara, Primark, M&S e H&M. L’indignazione cresce anche tra le comunità locali, che denunciano spiagge e corsi d’acqua soffocati da capi sintetici provenienti sempre dal Regno Unito e dal resto d’Europa.

Il costo ambientale è altissimo
Alla base del problema c’è il modello del fast fashion, che produce abiti a basso costo, spesso sintetici e pensati per una vita brevissima. I tessuti sintetici, derivati in molti casi dal petrolio, non solo impiegano secoli a degradarsi, ma a ogni lavaggio rilasciano microplastiche che possono danneggiare gli ecosistemi marini.
Ma la verità è che quella del fast fashion è un’industria ad alta intensità di inquinamento sotto molti altri aspetti. Il fast fashion è responsabile fino al 10% delle emissioni globali di gas serra, e non solo: la produzione tessile fa largo uso di sostanze chimiche, molte delle quali pericolose per l’ambiente e per la salute umana. Basti pensare che tra le 3.000 sostanze usate nei processi di lavaggio e tintura del tessile, almeno 250 sono note per essere pericolose.
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Le falle della regolamentazione europea
Nel 2022 l’Unione Europea ha varato una strategia con l’intento di responsabilizzare i produttori sull’intero ciclo di vita dei prodotti e di supportare le regioni più colpite dalle conseguenze delle esportazioni dall’UE. Ma come è andata a finire? In nulla di fatto, le misure sono ancora troppo deboli e frammentarie: ad oggi manca un quadro giuridico globale vincolante che richieda al produttore di occuparsi dell’intero ciclo di vita del prodotto (comprese le fasi di smaltimento e riciclo) e i Paesi più vulnerabili non vengono tutelati, finendo sepolti dalle montagne di rifiuti che vengono spediti loro ogni anno.

Cambiare rotta è possibile
Cosa si può fare, quindi? Le contromisure per un intervento strutturale e multilivello ci sono. Eccole:
- Approvare un Trattato globale sulla plastica che limiti anche la produzione di tessuti sintetici;
- Introdurre politiche obbligatorie di responsabilità estesa del produttore (EPR);
- Vietare le sostanze tossiche attraverso una strategia di eco-design e detox;
- Sviluppare impianti per la raccolta e il riciclo dei rifiuti tessili;
- Promuovere la produzione tessile locale, il riuso creativo (upcycling) e la riparazione degli abiti;
- Investire in ricerca e campagne educative per aumentare la consapevolezza ambientale delle persone

Anche noi consumatori possiamo fare la differenza!
Fermare l’emorragia di abiti scartati non significa soltanto salvare l’Africa da un futuro da discarica, ma rivedere radicalmente il nostro modo di produrre, consumare e vivere i vestiti. Serve un’azione globale, ma anche la consapevolezza individuale che ogni scelta d’acquisto ha un impatto.
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