Tra pochi giorni, il 3 marzo, è prevista la conclusione del negoziato per un Trattato Globale sugli Oceani: in poche parole, la possibilità di proteggere con meccanismi precisi e condivisi le “acque internazionali”, oltre la giurisdizione dei singoli Stati. Ma è un negoziato in bilico: mare di nessuno, o di tutti?
La protezione degli oceani è sempre più necessaria e urgente, sia perché abbiamo una maggiore comprensione di quanto sia importante il mare per la nostra stessa sopravvivenza, sia perché le minacce che assediano il più grande ecosistema del Pianeta aumentano anziché diminuire.
A luglio, per esempio, si deciderà se autorizzare attività di estrazione mineraria negli abissi marini: è il cosiddetto deep mining, una minaccia che avrà effetti devastanti sulla biodiversità degli oceani, sugli equilibri climatici e su tutti noi.
Per quanto assediati dall’inquinamento, dal cambiamento climatico e dalla pesca eccessiva, gli oceani sono talmente immensi da aver preservato alcune grandi estensioni del nostro Pianeta. Una di queste è la zona di Clarion-Clipperton: poco nota, poco frequentata e quindi relativamente incontaminata. È un’area dell’Oceano Pacifico, al largo delle coste dell’America Centrale, di circa 11,6 milioni di km2 (e dunque ben più estesa del continente europeo), con una profondità media di oltre 5.000 metri. Solo pochi decenni fa qui sono state scoperte centinaia di montagne e vulcani sottomarini: strutture che si associano sempre a un’enorme biodiversità marina, confermata dal fatto che l’area è frequentata da oltre trenta specie di cetacei. La abitano megattere, balenottere minori e le enormi balenottere azzurre: cacciate fino ai limiti dell’estinzione ancora stentano a recuperare, ma qui hanno uno dei loro santuari.
Purtroppo, ci sono altre ricchezze in quest’area, che attirano altri predatori. Sui fondali abissali della zona di Clarion-Clipperton si trovano infatti milioni di noduli polimetallici: concrezioni quasi sferiche, con diametri variabili tra i 5 e i 15 cm, che si formano intorno a un innesco naturale, come un frammento di conchiglia o un dente di squalo. Con il tempo, si forma una sorta di sfera ricca di ferro, manganese e altri metalli come rame, nichel e cobalto.
Affinché cresca un nodulo di 1 cm di diametro occorrono milioni di anni: esistono organismi marini che negli abissi profondi si sono adattati a vivere solo su queste strutture. E proprio nella zona Clarion-Clipperton in cui sono presenti più noduli, i ricercatori dell’Università delle Hawaii hanno scoperto una biodiversità ricchissima (oltre metà delle specie era sconosciuta).
L’estrazione di noduli polimetallici, a migliaia di metri di profondità, avrà effetti devastanti su queste comunità biologiche, sulla loro produttività e su altri servizi ecosistemici fondamentali, con un impatto certo sugli equilibri planetari. Ma c’è di più.
Il rumore martellante delle operazioni di ricerca e di estrazione, diffuso per diverse centinaia di chilometri attraverso il mare, 24 ore al giorno, senza sosta, andrebbe a interferire irrimediabilmente con le frequenze utilizzate dai cetacei per comunicare. Ciò rischia di disturbare i richiami tra madri e cuccioli, o tra partner che si accoppiano e potrebbe causare cambiamenti comportamentali nei mammiferi marini, aumentando il rischio di separazione madre-cucciolo. Sappiamo già che rumori così intensi e persistenti renderanno l’area inabitabile per i cetacei, costringendoli a interrompere l’alimentazione e ad abbandonare uno dei pochi santuari in cui sono al sicuro.
Le compagnie minerarie, pur di fare profitti, naturalmente se ne infischiano della vita delle balene e delle specie marine che saranno danneggiate dalle operazioni di ricerca ed estrazione. Serve un santuario a tutela di quest’area enorme e importante: e questo, può darcelo solo un Trattato Globale sugli Oceani che funzioni davvero. Ma bisogna fare presto.
Le attività minerarie nei fondali marini sono regolate da una commissione internazionale, la International Seabed Authority (ISA), che il prossimo luglio deciderà se dare il via libera a queste operazioni devastanti. L’Italia è tra i 36 Paesi con diritto di voto all’ISA e il suo voto può essere decisivo. Lo scorso novembre, insieme ad altri Paesi, l’Italia ha sostenuto che prima di avviare le estrazioni deve essere garantita la tutela ambientale. Nel frattempo altri Stati si sono espressi per uno stop temporaneo (Germania) o un bando totale (Francia). Il nostro governo invece tace e sappiamo che grandi compagnie italiane come SAIPEM (controllata da ENI) e Fincantieri sono interessate a questo tipo di attività, di fatto riconvertendo il know-how delle estrazioni petrolifere offshore, con evidente mire ai depositi di minerali del Tirreno meridionale, a nord delle Isole Eolie.
Chiediamo che l’Italia si esprima chiaramente per impedire questo scempio insensato. Gli interessi economici non devono in nessun modo primeggiare sulla salute del Pianeta. Le attività minerarie in mare profondo sono spacciate come green, necessarie per le nostre tecnologie e addirittura a favore dei diritti umani: tutte balle. La verità è che i nostri oceani stanno già affrontando una pressione antropica insostenibile: inquinamento da plastica, trivellazioni, pesca industriale. L’estrazione mineraria in acque profonde si aggiungerebbe a questi fattori, aggravando le ferite al più grande ecosistema del Pianeta. Semplicemente, non possiamo permettercelo.