Un nuovo rapporto di Greenpeace Italia sulle attività di esplorazione ed estrazione di gas e petrolio di ENI mostra come, dei 767 progetti in cui è attualmente coinvolta a livello globale la multinazionale italiana, ben 552 abbiano iniziato (o inizieranno) a estrarre fonti fossili dopo l’Accordo sul clima di Parigi, raggiunto del 2015. Per novantasei di questi progetti hanno addirittura acquisito la licenza dopo quella data.
Un trend che non si è interrotto nemmeno dopo che nel 2021 l’Agenzia Internazionale per l’Energia (AIE) aveva raccomandato di non procedere con nuovi investimenti in combustibili fossili. Ignorando questa esortazione, 29 progetti di ENI hanno ottenuto una licenza dopo il 2021. Nel complesso, i 552 progetti successivi al 2015 riconducibili in qualche modo a ENI sono una vera e propria bomba climatica: secondo i calcoli di Greenpeace Italia, le loro emissioni totali potrebbero produrre di circa 5.433 Mega tonnellate di CO2 equivalente (Mt CO₂-eq), di cui 2.537 Mt CO₂-eq in quota ENI: un valore altissimo, pari a 6,5 volte le emissioni dell’Italia nel 2023 (387 Mt CO₂-eq).
«Mentre il pianeta e il nostro Paese sono stretti tra eventi climatici estremi come siccità, ondate di calore e alluvioni, con vittime e danni economici sempre più cospicui, ENI continua a investire in combustibili fossili, incurante delle conseguenze causate dallo sfruttamento di gas e petrolio», afferma Simona Abbate della campagna Clima di Greenpeace Italia. «La finestra temporale per invertire la rotta sta diventando sempre più stretta, ma evidentemente questo non interessa a ENI e alle altre compagnie dell’oil&gas, le cui scelte industriali sono un biglietto di sola andata per il collasso climatico».
Lo scarso interesse di ENI per la tutela ambientale, malgrado il continuo ricorrere al greenwashing, è dimostrato anche dal fatto che dei 767 progetti in cui l’azienda è coinvolta, ben 56 si trovano all’interno di un’area protetta (con Italia, Regno Unito e Paesi Bassi in testa). Se si prendono in considerazione i 17 Paesi in cui le emissioni totali dei progetti partecipati da ENI sono più elevate, 27 asset sono situati all’interno di un’area protetta e 151 a meno di 10 chilometri, costituendo una potenziale minaccia per la biodiversità.
Secondo quanto raccolto da Greenpeace Italia, inoltre, il 70% di questi 17 Paesi è governato da regimi non democratici, cioè “autoritari” o “ibridi” secondo il Democracy Index; per il 76% si tratta di Paesi in cui il livello di pace è “molto basso”, “basso” o “medio” secondo il Global Peace Index; il 70% sono Paesi nei quali le violazioni dei diritti dei lavoratori sono “regolari”, se non “sistematiche” o addirittura in un contesto di “nessuna garanzia dei diritti” secondo il Global Right Index, e per il 70% si tratta di Paesi al di sotto della media mondiale in termini di corruzione percepita secondo il Corruption Perceptions Index. In particolare, si segnalano le licenze ottenute da ENI nelle acque al largo della Striscia di Gaza nelle prime settimane dei bombardamenti israeliani.
«L’alta percentuale di progetti localizzati in Paesi autoritari, in guerra, con scarse tutele dei lavoratori e alti livelli di corruzione dimostra come ENI non si preoccupi del rischio di alimentare situazioni di repressione politica, violazione dei diritti umani e di conflitto armato», dice Sofia Basso della campagna Pace e Disarmo di Greenpeace Italia. «È ormai evidente che una transizione energetica vera e giusta non risolverebbe solo l’emergenza climatica, ma anche tante crisi geopolitiche che minacciano la sicurezza globale».
Leggi il repor integrale