Il fast fashion è sinonimo di abiti a basso costo, prodotti a ritmo vertiginoso. Ma dietro questa apparente convenienza si nasconde un modello industriale profondamente insostenibile, che genera enormi danni ambientali e sociali.

Nonostante le promesse “green” e le etichette che parlano di capi riciclati o eco-friendly, la verità è che nessun marchio di fast fashion può dirsi sostenibile. La logica dell’usa e getta, su cui si basa l’intero settore, è semplicemente incompatibile con qualsiasi forma di rispetto per il pianeta e per le persone.

In questo articolo ti spieghiamo perché il fast fashion non potrà mai essere sostenibile — e cosa possiamo fare, insieme, per cambiare rotta.

1) Sovrapproduzione e spreco: quello del fast fashion è un ciclo senza fine

Una donna in cima a una pila enorme di vestiti usati in una discarica analizza dei rifiuti tessili
Il team di Greenpeace esegue scansioni a infrarossi e analizza i rifiuti tessili in una discarica vicino a Mortuary Road, in Ghana

Il fast fashion si regge su un meccanismo distruttivo: produrre troppo e troppo in fretta. Marchi come Shein, Temu, Zara e H&M immettono sul mercato centinaia di nuovi modelli ogni settimana, alimentando una cultura dell’usa e getta che genera tonnellate di rifiuti tessili. Ma cosa succede ai vestiti una volta che le tendenze svaniscono? Milioni di capi finiscono nelle discariche o vengono bruciati ogni anno, con conseguenze ambientali devastanti.

Greenpeace ha documentato con immagini e inchieste il vero volto di questa emergenza: ad Accra, in Ghana, il più grande mercato dell’usato è ormai sommerso da abiti inutilizzabili provenienti da Europa e Nord America. Realizzati con materiali scadenti, questi capi non possono essere rivenduti, riusati né riciclati, e si trasformano in montagne di rifiuti o vengono bruciati all’aperto, sprigionando fumi tossici.

La portata degli sprechi del fast fashion è così estrema da essere visibile dallo spazio. Nel deserto di Atacama, in Cile, continuano ad accumularsi montagne di abiti scartati, provenienti da Stati Uniti, Europa e Asia. Immagini aeree e satellitari mostrano un disastro ambientale in uno degli ecosistemi che dovrebbe essere tra più incontaminati del pianeta. 

Nonostante gli sforzi per riutilizzare parte di questi rifiuti, l’enorme volume rimane sconcertante a dimostrazione dell’incessante sovrapproduzione del settore e della sua incapacità di gestire i propri rifiuti.

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2) Catene di fornitura ad alta intensità di risorse: un costo ambientale nascosto

Una pila di rifiuti plastici e tessili si snoda lungo la spiaggia di Accra, in Ghana.
Rifiuti plastici e tessili sulle rive di Accra, vicino alla laguna di Korle (Ghana).

Il fast fashion non consuma solo vestiti, ma anche risorse naturali ed energia. La coltivazione del cotone convenzionale richiede enormi quantità di acqua e pesticidi, mentre il poliestere, un derivato dei combustibili fossili, contribuisce all’inquinamento da microplastiche di oceani e fiumi. Persino i cosiddetti tessuti “sostenibili” richiedono processi ad alta intensità energetica e trattamenti chimici che danneggiano gli ecosistemi.

Per produrre un solo paio di jeans servono fino a 7.000 litri d’acqua. Una maglietta? Richiede circa 2.700 litri, l’equivalente di quello che una persona beve in quasi tre anni.

La campagna DetoxMyFashion di Greenpeace ha rivelato l’enorme quantità di sostanze chimiche pericolose impiegate nelle filiere del fast fashion: solo per la tintura dei tessuti si usano ogni anno 1,7 milioni di tonnellate di sostanze chimiche, molte delle quali finiscono nei corsi d’acqua dei Paesi produttori, spesso nel Sud del mondo, inquinando ecosistemi e fonti di acqua potabile.

Ma il problema non riguarda solo la produzione: anche il trasporto e la gestione degli abiti usati genera impatti ambientali enormi. Un’indagine condotta da Greenpeace Spagna ha dimostrato che molti abiti di seconda mano depositati nei cassonetti percorrono migliaia di chilometri senza essere riciclati correttamente, contribuendo ad aumentare le emissioni di gas serra.

Stessa cosa vale per i resi online. Insieme ai giornalisti del programma Report di Rai3, noi di Greenpeace Italia abbiamo analizzato l’impronta ambientale di questa filiera e ne è uscito un quadro preoccupante. Gli abiti resi gratuitamente dopo l’acquisto sui più famosi e-commerce (Amazon, Temu, Zalando, Zara, H&M, OVS, Shein, ASOS) percorrono fino a 10mila chilometri, e spesso non vengono più rivenduti

3) Sfruttamento dei lavoratori: l’alto costo umano della moda a poco prezzo

Un uomo ripara dei jeans con la macchina da cucire all'interno del mercato di Kantamanto, in Ghana,
Kantamanto (Ghana) è il più grande mercato di tessuti usati dell’Africa occidentale. Ogni anno in Ghana finiscono ben 120.000 tonnellate di abiti di seconda mano provenienti da Asia, Nord America ed Europa.

La vera sostenibilità va oltre l’impatto ambientale: deve anche tenere conto della giustizia sociale. E sotto questo profilo, il fast fashion fallisce ancora. I marchi di fast fashion si affidano spesso a manodopera a basso costo in Paesi con scarse tutele ambientali e lavorative. Le fabbriche in Bangladesh, Vietnam, Cina e molti altri Paesi sono note per le condizioni di lavoro poco sicure, i salari da fame e l’inquinamento che devasta la vita delle comunità locali.

Il Fashion Transparency Index 2023 rivela che quasi la metà (45%) dei 250 principali marchi di moda manca di trasparenza, e molti non rivelano le fabbriche in cui vengono realizzati i loro capi. Sono sempre più numerose le prove che i principali marchi di moda adottano pratiche di sfruttamento nei confronti dei propri fornitori, e che pochi divulgano prove di rapporti di lavoro equi con loro.

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4) Incoraggiare il consumo usa e getta: la trappola del greenwashing

Abiti di Shein appesi sulle stampelle all'interno del popup store aperto dal brand a Monaco
Popup store di Shein a Monaco

Perché il fast fashion continua a prosperare? Perché incoraggia l’acquisto impulsivo, nascondendo il proprio impatto dietro una patina di sostenibilità. Molti marchi infatti promuovono capsule collection “sostenibili” o linee eco, senza cambiare nulla nel proprio modello produttivo.

Il risultato è un’enorme operazione di greenwashing: a niente servono piccoli accorgimenti di facciata, mentre la produzione resta smisurata. Ma la verità è che nessun marchio può dirsi sostenibile se continua a produrre milioni di capi ogni anno.

Inoltre, anziché assumersi le proprie responsabilità, spesso le aziende cercano di aggirare le regole. Shein, ad esempio, investe in attività di lobbying per ottenere politiche favorevoli. Nell’Unione Europea, ha arruolato l’ex Commissario europeo per il Bilancio e l’Economia Digitale, il politico tedesco Günther Oettinger, per influenzare le normative a suo favore. Oettinger ha lavorato dietro le quinte per proteggere il modello di business dell’azienda da politiche UE più severe, sollevando preoccupazioni sull’influenza delle aziende sul processo decisionale.

Allo stesso modo, in Francia, l’ex ministro del governo di Emmanuel Macron, Christophe Castaner, è stato recentemente assunto come lobbista per Shein, subendo pesanti critiche per aver difeso il marchio nonostante i suoi danni ambientali e sociali ampiamente documentati. Questi casi illustrano come Shein recluti strategicamente ex funzionari di alto profilo per modellare le normative in modo da dare priorità agli interessi aziendali rispetto alla sostenibilità.

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Acquistare fast fashion può sembrare vantaggioso ma crea danni alla nostra salute e all’ambiente. Per rimodellare il ciclo insostenibile del fast fashion, marchi e consumatori devono collaborare: le aziende devono produrre meno abiti e di maggiore qualità e noi, lato nostro, dobbiamo acquistare con più attenzione, scegliendo capi durevoli e imparando a riconoscere i materiali meno impattanti dal punto di vista ambientale.

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