Olive branch with green olives.

È in tutte le nostre case, è il segreto della tradizione gastronomica mediterranea ed è uno dei fiori all’occhiello del miglior Made in Italy.

Parliamo dell’olio d’oliva, che non è soltanto il re della nostra tavola, ma un bene prezioso di cui siamo il secondo esportatore al mondo (secondi solo alla Spagna). Ma – è il caso di dirlo –  non è tutto “olio” ciò che luccica: questo prodotto eccellente infatti rischia di subire, come accade a moltissimi prodotti agroalimentari, i peggiori effetti dei cambiamenti climatici.

Anzi, secondo i produttori pugliesi, il cambiamento climatico è la prima causa del peggior calo nella produzione di olio d’oliva italiano negli ultimi 25 anni.

La notizia, che da mesi circola in tutto il mondo, è tornata alla ribalta della stampa di recente in seguito all’emergenza olivicola in Puglia, dove si produce oltre la metà dell’extravergine italiano.

La flessione per colpa degli eventi meteo estremi

Il 2018 è stata una delle annate peggiori per l’olio d’oliva nel nostro Paese. La flessione in Italia è stata del 57%, parliamo quindi di una produzione quasi dimezzata, contro il 20% del Portogallo o il 42% della Grecia, per restare ai paesi europei produttori, a causa soprattutto dei fenomeni meteo estremi provocati dai cambiamenti climatici.

Una filiera messa a dura prova dunque non solo dalla Xylella e dall’eccessivo uso di pesticidi, ma soprattutto da quegli effetti del riscaldamento globale che siamo – erroneamente – portati a definire “maltempo”, vale a dire gelate alternate a lunghi e drammatici episodi di siccità.

Oggi però non ci sono più scuse per dire che si tratta sempre e solo di “fatalità”: è la scienza a dirci che bombe d’acqua, ondate di calore, siccità, e tutti i fenomeni meteorologici estremi, sono sempre più intensi e frequenti proprio a causa dei cambiamenti climatici. Insomma, se il meteo a volte può sembrarci “imperscrutabile”, di sicuro il riscaldamento globale non lo è: l’IPCC – il braccio scientifico dell’ONU che si occupa dei cambiamenti climatici – ci ha più volte spiegato che la soluzione è  abbandonare i combustibili fossili, carbone petrolio e gas, e accelerare la transizione energetica verso un mondo 100% rinnovabile al massimo entro il 2050. Oltre che – naturalmente – diminuire il consumo di carne e fermare la deforestazione. Per l’IPCC il primo passo sarà dimezzare le emissioni globali al 2030: abbiamo quindi 11 anni per agire, e abbiamo le tecnologie per raggiungere l’obiettivo. Quello che davvero manca, ad oggi, è la volontà politica di farlo.

Una produzione che andrebbe difesa

Secondo l’Ismea, degli oli di qualità riconosciuti in Unione Europea, quasi il 40% è rappresentato da marchi italiani, pari a 46 prodotti a denominazione (di cui 4 Igp): un numero altissimo, soprattutto se consideriamo che la Spagna, il primo produttore, ha meno riconoscimenti di noi. Non dovremmo quindi pensare a tutelare un patrimonio non solo ambientale, ma anche culinario ed economico?

Non ci sono più alibi da inventare: il conto che la natura ci sta presentando, anche in Italia, è la conseguenza del riscaldamento globale e quello che sta accadendo ai nostri ulivi non è il frutto di un clima impazzito, è il frutto di un clima che reagisce alle ripetute, miopi e spesso egoistiche scelte di aziende e governi.