Greenpeace Italy activists take action against the oil drilling platform Prezioso, off the coast of Sicily.

È ormai prossima la scadenza della moratoria che, per due anni e mezzo, ha bloccato nel nostro Paese i permessi di prospezione e ricerca di idrocarburi in mare e sulla terraferma. Nel febbraio del 2019, infatti, l’allora governo Conte aveva deciso un fermo temporaneo di queste attività in attesa di redigere un “piano delle aree” che avrebbe dovuto individuare le aree escluse dall’estrazione di gas e petrolio.

Un’occasione purtroppo mancata: nonostante ritardi e rinvii, infatti, al momento non esistono né una mappa credibile né indicazioni chiare per fermare le trivellazioni e condurre seriamente il nostro Paese sulla strada della decarbonizzazione. Inoltre, in assenza di un piano – o in presenza di un piano inadeguato – dal primo di ottobre c’è il rischio che tutto riparta come se niente fosse.

Il PiTESAI

A oltre due e anni e mezzo dall’entrata in vigore della moratoria, dopo diversi rinvii e ritardi, il PiTESAI è stato finalmente presentato lo scorso luglio per avviare la procedura di Valutazione Ambientale Strategica (VAS). Ma, come abbiamo già denunciato, è piuttosto deludente: dopo aver atteso così a lungo ci aspettavamo qualcosa di più di un vago documento di indirizzo, privo di cartografie e criteri di esclusione precisi, e pieno di lacune e gravi omissioni.

La documentazione presentata dalla Direzione proponente del Ministero della Transizione Ecologica non fornisce un’analisi dettagliata della situazione attuale o degli scenari futuri; non chiarisce dove sia consentito o meno svolgere le operazioni legate all’attività estrattiva; non presenta un piano dettagliato delle aree; tralascia di considerare attività fondamentali come la pesca o il turismo. Difficile quindi valutare se il piano così com’è causerà o meno degli impatti significativi sull’ambiente. Inoltre, mancano indicazioni certe sui tempi e i modi di dismissione delle piattaforme non più attive e sulla messa in ripristino dei luoghi in cui operavano.

Viene inoltre lasciata aperta la possibilità di riutilizzare i pozzi per la cattura e lo stoccaggio di CO2 (CCS), una tecnologia di dubbia efficacia e sostenibilità economica, funzionale solo per perpetrare gli interessi dell’industria fossile. A cominciare dagli interessi di ENI, che la promuove come (falsa) soluzione alla crisi climatica.

Per di più non è stato prodotto ancora uno Studio di Incidenza a tutela dei siti Natura 2000 voluti dall’Unione Europea (nel rispetto della Direttiva Habitat e della Direttiva Uccelli), mentre vanno approfondite le valutazioni degli impatti, ad ora assolutamente vaghe e superficiali, sugli ecosistemi e sui fondali marini, nonché su tutti gli aspetti di geologia, idrogeologia, geofisica e vulcanologia, importantissimi per le attività estrattive. A conferma che la documentazione prodotta per la VAS è una “scatola vuota”.

Lo abbiamo messo nero su bianco presentando insieme a WWF e Legambiente oltre 77 pagine di osservazioni entro il termine ultimo del 14 settembre della procedura di VAS, e denunciando la situazione in una lettera inviata lo scorso 9 settembre allo stesso ministro Cingolani.

I tempi stringono

A deludere non è solo il piano, ma anche l’intera procedura di VAS, che implica tempistiche davvero risicate e poco serie per lo sviluppo di una pianificazione di questa importanza. In primis c’è da evidenziare la decisione, quanto meno sospetta, di aprire la procedura nel mezzo delle ferie estive, non favorendo certo le riflessioni e la partecipazione della società civile. Inoltre, ci paiono davvero inverosimili i sedici giorni di tempo a disposizione per analizzare le osservazioni pervenute entro il 14 settembre.  

Il timore – fondato – è che non si riesca ad approvare il piano e che dopo il 30 settembre ripartano tutti i progetti sospesi: circa una novantina di provvedimenti tra terra e mare. E anche se il piano fosse approvato così com’è, c’è il rischio che un documento tanto generico non faccia altro che lasciare un’inaccettabile discrezionalità, in assenza di criteri certi e aree ben individuate. Mentre quello di cui l’Italia ha bisogno non sono nuovi pozzi, ma regole chiare e stringenti per uscire dalla dipendenza dalle fonti fossili.  

Smetterla con la finzione ecologica

Più che di transizione ecologica dobbiamo quindi ancora una volta parlare di finzione ecologica del nostro governo: il piano infatti doveva affrontare l’importante tema della “transizione”, ma lascia di fatto le cose come stanno. Non è certo provando a sfruttare le (poche) riserve nazionali di gas fossile e petrolio che riusciremo a centrare gli obiettivi ambientali e climatici che il nostro Paese dice di voler raggiungere.

Affinché il piano sia credibile e punti a una vera transizione è necessario che contenga indicazioni chiare, per mettere finalmente una pietra sopra all’estrazione di fonti fossili nel nostro Paese. Da un lato cessando subito e in maniera definitiva il rilascio di autorizzazioni per ogni nuova attività di prospezione e ricerca di gas e petrolio a terra e in mare, dall’altro fissando un termine ultimo di scadenza delle concessioni di coltivazione in essere.

Per questo insieme a WWF e Legambiente abbiamo chiesto al ministro della Transizione Ecologica un provvedimento urgente di proroga del termine di adozione del PiTESAI. In modo che si possa avere il tempo necessario per sviluppare un piano serio in linea con gli impegni di decarbonizzazione al 2030 (-55% delle emissioni di gas serra) e per la neutralità climatica al 2050, assunti dall’Italia con l’Europa e indicati come priorità nel PNRR. Obiettivi che però, ad oggi, il PiTESAI ignora.