Il fast fashion non è un problema che riguarda solo la moda: è una questione sociale, ambientale e sanitaria che riguarda tutti noi. Ma a pagarne il prezzo, come spesso accade, sono soprattutto i Paesi a Sud del mondo. Se è vero infatti che ogni anno 83 milioni di tonnellate di rifiuti tessili finiscono nel mondo tra inceneritori, discariche e corsi d’acqua, una quota enorme – quasi la metà di quelli prodotti nell’Unione Europea – prende la via dell’Africa, trasformando il continente in una discarica globale dell’industria della moda. 

Lo rivela Draped in Injustice, il nuovo report di Greenpeace Africa che documenta l’impatto devastante degli abiti di seconda mano che finiscono in Africa, spesso invendibili e destinati fin da subito a diventare rifiuti.

Veduta aerea della discarica di Akkaway, fuori Accra, in Ghana, colma di rifiuti tessili.
Discarica di Akkaway, in Ghana, situata vicino alle zone umide protette del Delta del Densu © Samuel Baidoo / Unearthed / G

Una crisi globale che esplode in Africa

Sono enormi le quantità di abiti usati che finiscono in Africa, ma non certo per filantropia. Angola, Kenya, Tunisia, Benin, Ghana e Repubblica Democratica del Congo sono tra i Paesi maggiormente colpiti: nel solo 2022 hanno importato quasi 900mila tonnellate di indumenti usati provenienti dall’Unione Europea

E il dato è ancora più allarmante se si considera che spesso il 50% di questi capi è inutilizzabile a causa di danni o scarsa qualità. In Kenya, ad esempio, nel 2021 sono arrivati 900 milioni di capi di seconda mano, metà dei quali ha finito per intasare discariche come quella di Dandora o per inquinare il fiume Nairobi.

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Un uomo sulla riva di un fiume estrae degli abiti rimasti incastrati nella sabbia
Rifiuti tessili inglobati nella sabbia nell’area umida protetta del Delta del Densu, alle porte di Accra, in Ghana © Michael Takyi Lartey / Uneart

Il caso del Ghana: un Paese sotto l’assedio del fast fashion

Emblematica la situazione in Ghana, dove ogni settimana arrivano circa 15 milioni di capi usati

L’inchiesta di Greenpeace Africa e del team investigativo Unearthed ha recentemente documentato l’enorme sversamento di abiti scartati dal Regno Unito in una zona umida protetta vicino ad Accra, habitat prezioso per tre specie di tartarughe marine. In un’altra discarica che si trova sulle rive del fiume che conduce all’area, sono stati trovati anche abiti smessi di marchi noti come Zara, Primark, M&S e H&M. L’indignazione cresce anche tra le comunità locali, che denunciano spiagge e corsi d’acqua soffocati da capi sintetici provenienti sempre dal Regno Unito e dal resto d’Europa.

Un uomo, in piedi su una pila di rifiuti tessili, mostra un paio di jeans di Zara ridotti in pessime condizioni
Jeans di Zara trovati nella discarica tessile di Weija Ashbread, situata sul fiume Densu, nei pressi delle zone umide protette fuori Accra, in Ghana. © Michael Takyi Lartey / Uneart

Il costo ambientale è altissimo

Alla base del problema c’è il modello del fast fashion, che produce abiti a basso costo, spesso sintetici e pensati per una vita brevissima. I tessuti sintetici, derivati in molti casi dal petrolio, non solo impiegano secoli a degradarsi, ma a ogni lavaggio rilasciano microplastiche che possono danneggiare gli ecosistemi marini. 

Ma la verità è che quella del fast fashion è un’industria ad alta intensità di inquinamento sotto molti altri aspetti. Il fast fashion è responsabile fino al 10% delle emissioni globali di gas serra, e non solo: la produzione tessile fa largo uso di sostanze chimiche, molte delle quali pericolose per l’ambiente e per la salute umana. Basti pensare che tra le 3.000 sostanze usate nei processi di lavaggio e tintura del tessile, almeno 250 sono note per essere pericolose.

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Una pila di rifiuti tessili si estende a perdita d'occhio tra due abitazioni
Rifiuti tessili e plastici vicino alle case situate vicino alla discarica di Weija Ashbread, alle porte di Accra, in Ghana. © Michael Takyi Lartey / Uneart

Le falle della regolamentazione europea

Nel 2022 l’Unione Europea ha varato una strategia con l’intento di responsabilizzare i produttori sull’intero ciclo di vita dei prodotti e di supportare le regioni più colpite dalle conseguenze delle esportazioni dall’UE. Ma come è andata a finire? In nulla di fatto, le misure sono ancora troppo deboli e frammentarie: ad oggi manca un quadro giuridico globale vincolante che richieda al produttore di occuparsi dell’intero ciclo di vita del prodotto (comprese le fasi di smaltimento e riciclo) e i Paesi più vulnerabili non vengono tutelati, finendo sepolti dalle montagne di rifiuti che vengono spediti loro ogni anno.

Due caprette si aggirano nella discarica davanti a una pila di rifiuti tessili
Caprette nella discarica tessile di Weija Ashbread alle porte di Accra, in Ghana © Michael Takyi Lartey / Uneart

Cambiare rotta è possibile

Cosa si può fare, quindi? Le contromisure per un intervento strutturale e multilivello ci sono. Eccole:

  • Approvare un Trattato globale sulla plastica che limiti anche la produzione di tessuti sintetici;
  • Introdurre politiche obbligatorie di responsabilità estesa del produttore (EPR);
  • Vietare le sostanze tossiche attraverso una strategia di eco-design e detox;
  • Sviluppare impianti per la raccolta e il riciclo dei rifiuti tessili;
  • Promuovere la produzione tessile locale, il riuso creativo (upcycling) e la riparazione degli abiti;
  • Investire in ricerca e campagne educative per aumentare la consapevolezza ambientale delle persone
Una distesa di rifiuti tessili si estende a perdita d'occhio nella discarica. Sullo sfondo, alcune abitazioni.
Rifiuti tessili e plastici vicino alle case situate vicino alla discarica di Weija Ashbread, alle porte di Accra, in Ghana. © Michael Takyi Lartey / Uneart

Anche noi consumatori possiamo fare la differenza!

Fermare l’emorragia di abiti scartati non significa soltanto salvare l’Africa da un futuro da discarica, ma rivedere radicalmente il nostro modo di produrre, consumare e vivere i vestiti. Serve un’azione globale, ma anche la consapevolezza individuale che ogni scelta d’acquisto ha un impatto.

Per questo abbiamo pubblicato “Oltre il fast fashion, un manuale pratico per capire come fare per orientarsi verso acquisti più rispettosi del pianeta. La guida, scaricabile gratuitamente, contiene consigli su certificazioni affidabili, materiali da evitare e buone pratiche quotidiane per ridurre l’impatto del nostro guardaroba. 

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