Nel 2016 abbiamo fatto un referendum inutile sulle trivelle: è vero che il quorum non fu raggiunto (anche se più dell’85% dei votanti chiese di non avere più trivelle entro le 12 miglia), ma la norma che si voleva cancellare non è mai stata applicata. La parte che si voleva abrogare permetterebbe di continuare a trivellare entro le 12 miglia finché ci sarà gas o petrolio, a prescindere dal termine della concessione concessa. Una norma (come abbiamo sostenuto) semplicemente inapplicabile, contraria al diritto comunitario e nazionale.
La “lista nera” delle trivelle da pensionare
Quel referendum, almeno qualcosa di buono lo ha portato: ci siamo accorti che in mare ci sono decine di vecchie piattaforme (qualcuna si avvicina ai 60 anni di età) che da anni non tirano fuori un euro di royalties a favore dei cittadini italiani. Noi, le abbiamo chiamate le vecchie spilorce.
Puntare il dito su impianti vecchi e improduttivi che come fantasmi popolano i nostri mari ebbe diverse conseguenze. Una fu che la spilorcia che mettemmo simbolicamente al centro delle nostre attenzioni, Gela 1 – al largo delle coste di Gela– improvvisamente cominciò a produrre a livelli incredibili dopo anni di sostanziale aridità. Se nel marzo 2016 la concessione in questione (C.C 1.AG) aveva prodotto poco più di 4.146 tonnellate di greggio… miracolo! in aprile (il referendum fu proprio il 17 di quel mese) la produzione era schizzata a quasi 40.000 tonnellate di petrolio! Purtroppo una produzione “una tantum”, visto che già a maggio dello stesso anno si tornò alle “solite” 4.072 tonnellate.
manifestazione al Mise contro le trivelle – @Alessandro Bianchi/ Greenpeace
Una riconversione che ci costa troppo
Un’altra conseguenza degna di nota fu che si rese evidente che era improponibile lasciare questa ferraglia in mare ancora a lungo. Ci furono assurdi tentativi di allungare la loro vita, trasformandole in alberghi, bische o impianti eolici: desideri che si sono infranti spesso contro la logica, e certamente sempre contro i mostruosi costi di manutenzione. Se pensate a quanto può costare la manutenzione di una barchetta di 4 metri, immaginatevi i costi della trasformazione di una piattaforma che sta in mare da oltre 40 anni in un albergo, un ristorante o una sala giochi. Follia pura.
Come funziona il pensionamento delle trivelle
Si è quindi finalmente iniziato a parlare più seriamente di “decommissioning”: cioè di mandarle in pensione e smantellarle. Tanto seriamente che non solo sono stati pubblicati i criteri per questo decommissioning, ma sono state coinvolte le associazioni ambientaliste (WWF, Legambiente e anche noi) insieme a Assomineraria, l’associazione di categoria dei petrolieri, in un tavolo durato ben due anni presso il Ministero dello Sviluppo Economico per stilare una vera “lista” degli impianti da smantellare. Tutti d’accordo e tutto pronto per l’annuncio pubblico del piano di smantellamento concordato tra Ministero dello Sviluppo Economico, Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e, a quanto comunicato, da Assomineararia, con una data precisa: 17 dicembre 2018.
Poi…il silenzio. Insomma, dopo un avvio addirittura frenetico la lista è diventata un fantasma: a nulla sono servite le numerose pressioni e richieste fatte dalle associazioni ambientaliste in questi mesi, i ministeri coinvolti da quello dell’Ambiente al Mise hanno deciso di tenere “nel cassetto” il piano di dismissione lasciando in mare decine di piattaforme offshore.
Oggi, stufi di aspettare, approssimandosi la scadenza del 30 giugno ( in cui il Ministero dello Sviluppo economico deve procedere con la dichiarazione di dismissione mineraria prevista dal Decreto Ministeriale del 15 febbraio 2019) rendiamo nota questa lista: “Dichiarazione congiunta sul Programma di attività per la dismissione delle piattaforme offshore”.
Ormai non ci sono scuse: c’è un elenco che identifica con chiarezza 34 impianti da smantellare, 27 solo nella fascia delle 12 miglia. E’ necessario che il Ministero dello Sviluppo Economico sia coerente con gli impegni presi e entro fine mese decida di avviare subito la procedura di dismissione di 22 impianti e al più presto, al massimo nei prossimi due anni, degli altri 12 individuati, esattamente come prevede il piano. Si tratta di impianti mai entrati in produzione o non produttivi da almeno 10 anni o che non erogano gas o petrolio da almeno 5, da considerarsi dunque come veri e propri relitti industriali, pericolosi per la navigazione e per l’ambiente.
La metà dei 34 impianti individuati non ha mai avuto una procedura di Valutazione di Impatto Ambientale (perché autorizzati prima del 1986, anno in cui la VIA entrò in vigore in Italia), 4 piattaforme hanno 50 anni o più (Porto Corsini MWA, San Giorgio a Mare 3, Santo Stefano a Mare 1.9, Santo Stefano a Mare 3.7) , 4 più di 40 (Armida 1, Diana, San Giorgio a Mare C, Santo Stefano Mare 4) e ben 13 (il 38,2%) tra i 30 e 40 anni.
Dove sono e a chi appartengono questi relitti
Gli impianti sono quasi tutti localizzati nell’Adriatico: 29 localizzati nel tratto di mare tra Veneto e Abruzzo, 2 davanti alla Puglia, 1 davanti a Crotone e 2 nel Canale di Sicilia.
Il 73,4% di questi appartiene a ENI (ben 25!) e il restante 26.6% è di Edison (9).
Ci resta quindi il dubbio: perché, se erano tutti d’accordo, questa lista si è arenata? Possibile che il problema sia stato che Edison (con 9 impianti in lista:) abbia nel frattempo cominciato a contrattare con la greca Energean per cederle queste piattaforme?
Secondo quanto ci dice il “Sole 24 Ore” (edizione del 16 giugno 2019, pagina 16): “Il valore dell’operazione, secondo le attese di Edf e di Edison, figura tra uno e 2 miliardi di euro, al lordo tuttavia dei costi di decommissioning (cioè la gestione del fine vita e smantellamento dei siti produttivi), che ammonterebbero a qualche centinaio di milioni”.
Chissà se i greci lo sanno, di questa lista.