Ormai nessuno nega più l’urgenza di compiere una transizione ecologica in tutti i settori produttivi, e il tema è finalmente attuale anche nel settore agroalimentare. Non potrebbe essere altrimenti visti i dati allarmanti diffusi dall’ultimo rapporto dell’IPCC, il panel scientifico delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, in cui si indica la necessità di ridurre drasticamente le emissioni di metano che, a livello europeo, dipendono per il 40-53 per cento proprio dal settore agricolo (EU methane strategy) e sono in gran parte attribuibili al comparto zootecnico.

Come ridurre le emissioni agricole senza compromettere la sicurezza alimentare? 

Questa è la domanda sulla quale ci si interroga a diversi livelli: dai players internazionali riuniti nel recente Summit globale sul sistema alimentare voluto dalle Nazioni Unite, al Parlamento europeo e ai governi nazionali, impegnati nella stesura dei piani strategici nazionali della Politica Agricola Comune (PAC), probabilmente lo strumento più importante per indirizzare lo sviluppo dell’agricoltura europea nei prossimi anni.

Attorno a questo interrogativo sembrano scontrarsi due visioni: la prima ripone esclusiva fiducia nelle soluzioni tecnologiche, senza affrontare il tema dei modelli e dei livelli di produzione né dei comportamenti alimentari; la seconda avverte che la tecnologia da sola non sarà sufficiente ma occorre anche ridurre la produzione e il consumo degli alimenti con un maggiore impatto ambientale, a partire proprio dai prodotti di origine animale.           

Il gruppo di lavoro sugli allevamenti sostenibili, costituito all’interno del Food system summit, ha pubblicato tre documenti in cui questa visione divergente è chiarissima. La prima visione è sostenuta con forza dai grandi gruppi industriali del mondo della zootecnia (the Global Dairy Platform, International Meat Secretariat, International Poultry Council), che puntano ad aumentare i livelli produttivi e che, secondo quanto rivela una inchiesta di Unearthed, hanno fatto di tutto per estromettere le altre “voci” dal Summit, comprese quelle della scienza. La seconda visione (Resizing the Livestock) è infatti sostenuta da scienziati e da rappresentanti della società civile e dell’agricoltura su piccola scala, e suggerisce un modello in cui si produce e si consuma “meno e meglio”. In questo campo, infatti, diverse istituzioni scientifiche, hanno da tempo chiaramente indicato la strada, avvisando della necessità di ridurre la produzione e il consumo di carne (UNEP, IPCC, EATLancet).

Perché allora la strada della riduzione non è stata intrapresa?

Un recentissimo rapporto della FAO, “A multi-billion-dollar opportunity”, sulla base di un’analisi condotta in 88 Paesi, avverte che in molti casi i sussidi pubblici destinati al settore agricolo ostacolano la transizione verso sistemi alimentari più sani, sostenibili, equi ed efficienti, allontanando il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile e dell’Accordo sul clima di Parigi. A livello mondiale, più di due terzi dei fondi pubblici spesi a sostegno all’agricoltura – continua il rapporto – distorcono i prezzi e sono in gran parte dannosi per l’ambiente. Alla luce di questo quadro allarmante, la FAO sollecita i decisori politici a eliminare immediatamente i sussidi che hanno impatti negativi (anche se indiretti) sulla natura, sul clima e sulla salute pubblica.

Un’indicazione che sembra fatta su misura anche per il contesto italiano, dato che in queste settimane il Ministero dell’Agricoltura, sebbene in ritardo rispetto ad altri Paesi UE e alle richieste delle parti sociali, è entrato nel vivo del confronto con il “partenariato” sulle prime proposte per il Piano Strategico Nazionale (PSN), a partire dall’“architettura verde”, quindi dalle misure necessarie per centrare gli obiettivi europei e globali in materia di clima e ambiente. Tra queste misure continuano a essere assenti o deficitarie proprio quelle che puntano al cuore degli impatti ambientali e climatici della zootecnia, prendendo in considerazione anche una graduale riduzione delle consistenze zootecniche. Decenni di politiche e di finanziamenti per ridurre gli impatti della zootecnia hanno infatti mostrato che gli interventi di carattere esclusivamente tecnico, come il cambio dell’alimentazione animale o l’adozione di pratiche migliorative nella gestione dei liquami, non sono sufficienti a compiere quella reale transizione di cui c’è bisogno, semplicemente perché gli animali allevati in Italia (e non solo) continuano ad essere troppi e troppo concentrati affinché il settore possa essere considerato sostenibile.

Ricordiamo che in Italia le emissioni agricole di gas serra dipendono per circa due terzi dal settore zootecnico, che costituisce anche la seconda causa di formazione di polveri fini (PM 2,5), per via delle emissioni di ammoniaca legate alle deiezioni animali. Secondo ISPRA, negli ultimi 30 anni questo contributo è andato aumentando in percentuale rispetto agli altri settori, poiché, appunto, non sono sufficienti le sole soluzioni tecnologiche se non si interviene anche sulla riduzione del numero di animali allevati. 

Anche la Commissione Europea, nelle raccomandazioni inviate all’Italia per la redazione del nostro PSN, ricorda che il trend di riduzione delle emissioni agricole nel nostro Paese è “stagnante” dal 2006, mentre alcune componenti sono addirittura aumentate o sono sopra la media europea. Eppure, dal 2006 a oggi le innovazioni tecnologiche non sono mancate!

Su queste basi riteniamo preoccupanti i numerosi riferimenti all’agricoltura e alla zootecnia di precisione “tout court” all’interno degli “eco-schemi” proposti dal Ministero, poiché in assenza di dati che dimostrino consistenti benefici ambientali legati a queste pratiche, si rischia di finanziare interventi che di fatto si risolvono in una versione più tecnologica dell’attuale modello intensivo di agricoltura e zootecnia, senza significative riduzioni degli impatti ambientali. 

In questo ambito un’attenzione particolare va riservata anche agli incentivi per gli impianti a biometano: se, da un lato, questa tecnica può rappresentare una forma di produzione di energia da fonti rinnovabili, è infatti fondamentale che gli incentivi non rappresentino uno stimolo a realizzare nuovi allevamenti intensivi o a intensificare ulteriormente quelli già esistenti. 

Le nostre proposte inviate al ministro delle politiche agricole alimentari e forestali (MiPAAF) Stefano Patuanelli e agli altri attori del tavolo di partenariato insistono perciò sulla necessità di ridurre il numero e la densità degli animali allevati, parallelamente ai consumi di alimenti di origine animale, in modo graduale e con l’adeguato sostegno economico per gli allevatori. 

In particolare, proponiamo uno strumento di sostegno economico per quelle aziende che sceglieranno di ridurre il numero e la densità degli animali allevati: il “mancato guadagno” sarà compensato non solo dal sostegno pubblico, ma anche dai minori costi di gestione, legati per esempio all’acquisto dei mangimi che, per l’aumento dei prezzi di alcune materie prime, rappresentano una criticità per molti operatori. Nella stessa direzione va anche la proposta di sostenere le aziende che scelgono di alimentare gli animali allevati con mangimi e foraggi autoprodotti o acquistati da aziende del territorio (per una quota di almeno l’80 per cento).

Meccanismi del genere permetterebbero di alleggerire il carico zootecnico soprattutto in quelle zone, come la Pianura Padana, ad alta concentrazione di allevamenti intensivi, e di svincolarsi dalla “trappola” dell’importazione di materie prime, come la soia, con pesantissimi impatti sugli ecosistemi naturali. Insomma, una produzione ispirata al concetto di “meno e meglio” che vada a favore anche dei piccoli allevatori, piuttosto che al “business as usual” con piccoli aggiustamenti   come vorrebbero i grandi colossi del settore.