Il 14 ottobre del 2014, con le prime luci dell’alba, un gruppo di attivisti di Greenpeace occupa pacificamente una delle tante piattaforme per l’estrazione di idrocarburi presenti nei nostri mari. Siamo nel Canale di Sicilia con la nostra nave simbolo, la Rainbow Warrior: è la vigilia della votazione sullo Sblocca Italia, un decreto che – tra le altre cose – intende facilitare la vita ai petrolieri attivi nei nostri mari: procedure facili e snelle per poter disporre, senza troppi lacciuoli burocratici, amministrativi e ambientali, delle scarse riserve di idrocarburi che giacciono sotto i fondali. Gli orientamenti energetici del governo appaiono chiarissimi, in quei giorni: così che su quella piattaforma dell’ENI – di nome Prezioso, al largo delle coste di Licata – apriamo un enorme striscione in cui un sorridente Matteo Renzi promette, in tipico eloquio berlusconiano, “Più trivelle per tutti”.
STOP TRIVELLE, una battaglia che viene da lontano
In realtà Greenpeace si sta occupando di “trivelle” già da anni: perché da anni i petrolieri, e i gruppi politici che li sostengono, provano a mettere le mani sui nostri mari. Nel 2012 un lungo tour aveva portato i guerrieri dell’arcobaleno lungo le coste della Sicilia, una delle regioni maggiormente interessate dai progetti di espansione offshore. In quel lungo viaggio Greenpeace aveva raccolto il sostegno di 43 sindaci e di una parte larga e importante della popolazione siciliana, con l’obiettivo preciso di difendere i fondali del nostro mare. Fondali che non sono certo una “Arabia Mediterranea”: ma tant’è, parliamo di compagnie con un potenziale di investimento enorme, a cui conviene opzionare anche risorse marginali per mettersi al riparo dalle mille incognite del settore in cui operano. E di gruppi di potere che, per compiacere queste compagnie, sono disposti a tutto.
La nostra protesta sulla piattaforma Prezioso dura 36 ore. Ma non bastano. Non bastano neppure le manifestazioni davanti a Montecitorio. Lo “Sblocca Trivelle” passa e si arriva, di lì a poco, a un Ministero per lo Sviluppo Economico trasformato in un ufficio che emana decreti autorizzativi per attività di ricerca e produzione di idrocarburi a ritmi da catena di montaggio. Il Ministero per l’Ambiente asseconda. In pochi mesi, l’intero Adriatico (fatta eccezione per la parte più settentrionale) viene messo a disposizione dei petrolieri per ricerche geosismiche con la tecnica dell’airgun, e per realizzare nuovi pozzi di ricerca o di estrazione. Nuove piattaforme e attività di ricerca sono autorizzate anche nel Canale di Sicilia; ai petrolieri si vanno consegnando anche le acque delle Ionio, mentre il raggio delle loro attività tenta di espandersi sino al quadrante nord ovest dei mari sardi.
Un referendum per fermare i petrolieri
In questa deriva, un imprevisto inceppa l’ingranaggio messo a punto dal governo Renzi. Dieci regioni (ridotte poi a nove per la ritirata dell’Abruzzo) decidono di giocare una partita inedita e promuovere un referendum sulle trivelle, avvalendosi per la prima volta nella storia repubblicana di una loro prerogativa costituzionale. Ora la parola passa agli italiani: ha senso mettere a rischio i nostri mari – e con essi il turismo, la pesca e la vita delle comunità costiere – per estrarre quantitativi minimi di petrolio e gas a solo beneficio delle compagnie petrolifere? Ha senso che a decidere su una materia del genere sia solo il governo di Roma, senza ascoltare i territori e le loro istituzioni?
Nel dicembre del 2015, con la legge di Stabilità, il governo cerca di disinnescare il referendum modificando le norme sulle quali insisteva l’iniziativa delle Regioni. Il risultato è che dei sei quesiti iniziali ne rimane uno (il più tecnico, peraltro: su una norma che prevede tempi illimitati per le concessioni estrattive già attive). Per neutralizzare anche questo, si prevede la campagna referendaria più breve della storia italiana: due mesi per dibattere e informare, si vota il 17 aprile.
Nel frattempo in Italia si è formato, e non poco, un largo movimento fatto di comitati locali e reti, genericamente descritto come “No Triv”. Poi, a raccogliere questa sfida, ci sono le associazioni ambientaliste… e oltre ancora poco, pochissimo altro. La politica dei partiti decide di non scommettere su un referendum perso in partenza; persino le Regioni che lo hanno promosso finiscono, per lo più, per non muovere un dito.
La posta in gioco è chiara. La crescita delle rinnovabili, in Italia, è stata fermata; e intanto c’è chi lavora alacremente per garantire rendite di posizione e sopravvivenza alle aziende petrolifere. Per far questo, la strategia comunicativa del governo e delle varie lobby che con esso collaborano è semplice: spiegare che l’Italia non può permettersi di rinunciare a riserve energetiche e posti di lavoro. Che le attività di estrazione nei nostri mari sono sicure e non provocano danno alcuno. La realtà è un po’ diversa e Greenpeace, ancora una volta, prova a raccontarla.
In due mesi di azioni, mobilitazioni, bracci di ferro su ogni media – con uno sforzo per molti aspetti inedito – proviamo a spiegare agli italiani che le riserve certe di petrolio sotto i nostri fondali equivalgono a meno di due mesi dei consumi nazionali; quelle di gas a circa sei mesi. Che le piattaforme nei nostri mari inquinano eccome, stando ai monitoraggi commissionati dalle stesse compagnie che le operano; che estraggono pochissimo, generano ricchezza e occupazione prossimi allo zero. Proviamo a denunciare il silenzio con cui si vuole boicottare il referendum, e con esso gli inviti all’astensione da parte del premier.
Non basterà, infine: votano quasi 16 milioni di italiani, per l’86% contro la politica fossile del governo. Non c’è il quorum. Per molti analisti il risultato di quella “battaglia persa in partenza” sarà l’inizio della fine del governo Renzi. Per noi, diversamente, è un segnale fortissimo, in virtù del quale l’assalto ai mari italiani rallenta e la “licenza sociale” dei petrolieri si fa sempre più compromessa.
Le trivelle, l’oro nero…
La battaglia per difendere il mare dalla sete di “oro nero” non si è conclusa il 17 aprile del 2016. È un impegno necessario ed essenziale, per dare all’Italia un futuro di energia pulita e consegnare le trivelle, quanto prima, a un passato che non tornerà. Per questo Greenpeace continua a monitorare e denunciare le minacce che l’industria del petrolio muove ai nostri mari, e lavora al contempo anche per ridurre la sete di petrolio della nostra economia: per uscire presto dall’età del petrolio e cambiare profondamente il paradigma energetico nelle nostre società.