Forest West of Stor-Gravberget in Sweden. © Edward Beskow
Aerial view of forest. Greenpeace is documenting forest and forestry activities in the Swedish part of the Great Northern Forest. © Edward Beskow

Sembra che piantare alberi sia diventata la soluzione a tutti i problemi ambientali. Nonostante l’indubbio valore delle foreste e degli alberi, spesso il ruolo centrale che potrebbero giocare nell’aiutarci ad affrontare la crisi climatica in corso, viene stravolto. Si moltiplicano così gli esempi di greenwashing, cioè di false soluzioni per nascondere dietro una “patina verde” problemi ben più complessi. L’anno scorso, per esempio, vi abbiamo raccontato perchè non si azzerano le emissioni piantando alberi. Oggi vogliamo farvi un altro esempio che riguarda i cosiddetti “interventi compensativi di rimboschimento”, partendo da un caso emblematico.

A gennaio di quest’anno, è terminata con parere positivo la valutazione di incidenza ambientale della Regione Lazio al Piano che riguarda gli “interventi per la ristrutturazione e l’ampliamento degli impianti sciistici nel comprensorio sciistico del Monte Terminillo” (TSM2). La notizia ha preoccupato numerosi comitati locali, movimenti e associazioni dedicate alla salvaguardia del patrimonio boschivo italiano.
Il progetto TSM2, infatti, rischia di avere un impatto inaccettabile sui boschi: secondo il WWF ROMA, si stima l’abbattimento di circa 17 ettari di bosco, 1.700 alberi vetusti e la perdita di circa 6.5000 metri quadri di praterie primarie. La Regione pensa di poter ovviare a questa perdita con interventi compensativi di rimboschimento non ben specificati: un’idea che non ci convince per niente, visto che questo tipo di interventi spesso è inutile o addirittura dannoso.  

Perchè? L’abbiamo chiesto al  Dott. Goffredo Filibeck, ricercatore di Botanica Ambientale e Applicata presso l’Università degli Studi della Tuscia.

Per la realizzazione di opere pubbliche o private che hanno un elevato impatto sul territorio, vengono spesso proposti  interventi cosiddetti “compensativi”.  L’idea è quella di ricostruire altrove l’ecosistema distrutto, o di creare nuovi ecosistemi a fini di generica compensazione di altre forme di danno ambientale. Spesso il rilascio dell’autorizzazione a costruire l’opera è subordinato alla realizzazione di queste “compensazioni”; esse sono previste anche dalla (peraltro benemerita) Direttiva Habitat dell’Ue, quando un’opera abbia un impatto negativo sugli ecosistemi protetti dalle norme europee, ma debba comunque essere realizzata.

In Italia, gli interventi compensativi vengono molto spesso interpretati in modo piuttosto semplicistico: consistono solitamente nel piantare alberi. Questo tipo di intervento è previsto anche dal recente Testo Unico in materia forestale, che in caso di trasformazione di una superficie boscata richiede che ciò venga compensato piantando alberi altrove. 

Purtroppo, ad un’analisi scientifica appare che le “compensazioni” sono spesso inutili;  talvolta addirittura dannose.

Perché inutili? In primo luogo, è molto difficile ricostituire un ecosistema forestale. Un bosco non è una somma di alberi: è un sistema molto complesso di cui gli alberi sono solo la parte più vistosa, ma che per svolgere le sue funzioni deve essere composto da una specifica flora di erbe e arbusti del sottobosco, dagli insetti che su queste piante si alimentano o riproducono, dagli uccelli e mammiferi che diffondono i semi, ecc.

Piantare alberi è molto facile, ma introdurre le piante del sottobosco è tecnicamente molto difficile; per cui generalmente ci si limita a piantare le specie arboree. Manca negli organi pubblici la consapevolezza della complessità del problema, che viene ridotto alla semplice piantumazione di alberi, senza alcuna valutazione scientifica. Purtroppo, però, la flora tipica del sottobosco ha dei meccanismi di dispersione (ossia le strategie con cui fa viaggiare i suoi semi) scarsamente efficienti. Pertanto, queste piante possono impiegare anche parecchi secoli a ricolonizzare un rimboschimento. Questo significa che proprio quelle specie che più  avrebbero bisogno di essere tutelate  sono quelle che beneficeranno meno delle riforestazioni.

Inoltre, questi interventi vengono spesso realizzati in terreni agricoli abbandonati o riconvertiti a questo scopo. Sfortunatamente, la flora di sottobosco è adattata a suoli poveri di fosforo e, pertanto, difficilmente può crescere su suoli agricoli, a causa dell’accumulo di questo elemento, dovuto alle concimazioni. Gli alberi piantati in un campo abbandonato non saranno un “bosco”, ma solo delle file di tronchi con sotto un tappeto di  specie infestanti di scarsissimo valore ecologico, che “esplodono” nei suoli troppo fertilizzati, come rovi ed ortiche.  

Anche quando l’ ecosistema distrutto dalle grandi opere non è un bosco, la sua ricostruzione altrove può essere molto difficile. Ad esempio, le praterie seminaturali (ossia i pascoli formati da specie spontanee delle aree collinari  e montane, di eccezionale valore per la biodiversità), presentano sfide molto complesse per essere ripiantate, tra cui il fatto che anche la loro flora è molto sensibile all’eccesso di nutrienti nel suolo.

Assai singolare è poi l’idea (molto diffusa in Italia) di “compensare” mediante la creazione di nuovi boschi quei danni al territorio diversi dalla deforestazione, come ad esempio la penetrazione di grandi infrastrutture stradali in territori ancora paesaggisticamente integri: il danno di tipo culturale (la distruzione di un paesaggio “antico” e il valore inestimabile rappresentato dagli spazi “vuoti”) e quello ecologico (il disturbo alla fauna, l’interruzione dei corridoi ecologici, l’apertura di un canale d’ingresso per le specie esotiche invasive) non hanno nulla a che vedere con gli eventuali benefici apportati dalla piantumazione di nuovi boschi.

E perché le “compensazioni” sono talora addirittura dannose?  Il problema è la scelta dei siti. In Italia e in Europa, spesso gli alberi vengono piantati in ambienti naturali a torto ritenuti “degradati”, come le praterie seminaturali citate sopra, i boschi radi, le garighe (forme di bassa macchia mediterranea). In altri continenti, vengono prese di mira le savane e le praterie aride. Tutti questi ambienti, in realtà, hanno una biodiversità importantissima, ospitando piante e animali che non possono vivere nei boschi chiusi. Essi hanno talora un’origine antropica, in quanto generati da pascolo o incendi di origine umana, ma ecosistemi di questo tipo esistevano ben prima che l’essere umano modificasse il paesaggio, a causa del ruolo svolto dagli incendi naturali e dalle immense mandrie di erbivori selvatici che esistevano anche in Italia millenni fa, prima che l’essere umano li portasse all’estinzione. Piantare alberi nelle praterie del nostro Paese, così come nelle steppe del Nordafrica o nelle savane tropicali, distrugge la loro enorme biodiversità, sostituendola con un ambiente questo sì “degradato”, vista la difficoltà di ricreare un ecosistema forestale.

Non solo: anche sotto il profilo dell’assorbimento della CO2, piantare alberi in ecosistemi di prateria può essere controproducente, in quanto le erbe immagazzinano carbonio nel sottosuolo, uno stoccaggio più sicuro e duraturo di quello operato dal legno degli alberi. Anche l’idea, molto diffusa, che gli alberi proteggano il suolo dall’erosione più di una prateria è troppo semplicistica (talora è vero addirittura il contrario, dipende dal tipo di bosco e dal tipo di prateria).

Purtroppo, contrariamente all’opinione comune, piantare alberi non è necessariamente “un regalo alla natura”. È certamente molto utile e benefico (per la salute umana) piantare alberi in città o in aree industriali e degradate dall’inquinamento; può essere talora utile (per gli ecosistemi) piantare alberi in ambienti naturali in casi particolari, ad esempio per favorire specie animali minacciate;  ma la visione semplicistica che vede la riforestazione come la soluzione di tutti i mali, dal cambiamento climatico alla distruzione delle foreste naturali, non ha purtroppo fondamento nella complessa realtà del funzionamento della biosfera.

Le “compensazioni” forniscono un comodo alibi per continuare a consumare il territorio, una delle risorse più limitate che abbiamo: non ci sono scorciatoie rispetto a conservare le foreste e gli altri ecosistemi dove sono.

Non mangiarti le foreste!

L’80% della deforestazione del mondo è causata dalla produzione intensiva di materie prime, soprattutto agricole: praticamente, cibo che divora le foreste. Soia, olio di palma, cacao, carne, avocado, sono i responsabili di una distruzione senza precedenti. Stiamo decimando le foreste per far posto all’agricoltura massiva e industriale. Un milione di specie è a rischio di estinzione. Se vogliamo salvare il clima e la biodiversità, dobbiamo salvare le foreste.

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