Servono soluzioni in grado di cambiare alla radice un sistema che ha conseguenze significative sul Pianeta

La “rimozione” in psicanalisi è il processo per cui idee o ricordi vengono sepolti nell’inconscio perché ritenute inaccettabili a livello di coscienza. E’ questo che rischia di avvenire nel PNRR, nel quale gli impatti ambientali dell’agricoltura e della zootecnia intensive, stando alle bozze del Piano discusse dalle commissioni parlamentari, vengono sì parzialmente nominati, ma rimossi quando si tratta di affrontarli.

Il nostro modello agroalimentare impatta in diversi modi sull’ambiente, in particolare per quanto riguarda la produzione di carne e latticini. Gli allevamenti intensivi non solo contribuiscono alla formazione di gas serra, ma sono la seconda causa in Italia di formazione di polveri sottili e mettono a rischio la qualità dell’acqua e del suolo, soprattutto nelle aree dove sono maggiormente concentrati, come in Pianura Padana. Tutti questi impatti hanno ovviamente una connessione con la salute umana, ancora più urgente da affrontare dato che gli allevamenti intensivi, con tanti animali geneticamente molto simili concentrati in spazi angusti, sono un contesto perfetto per lo sviluppo e la diffusione di virus.

Attivisti di Greenpeace sono in azione a Roma, di fronte al Ministero delle Politiche Agricole.

Occorrono soluzioni sistemiche

Non bastano aggiustamenti tecnici dei metodi produttivi – un cambio dell’alimentazione animale o l’adozione di pratiche virtuose nella gestione dei liquami – che possono ridurre le emissioni di qualche punto percentuale. Bisogna affrontare il problema alla radice: gli animali allevati in Italia sono troppi per essere sostenibili e l’unico modo per ridurre seriamente il loro impatto, è ridurre drasticamente il loro numero.

Per fare questo serve però una chiara strategia e la definizione di obiettivi di mitigazione degli impatti generali del settore agricolo nazionale – che attualmente mancano nelle bozze – e servono adeguati finanziamenti per garantire alle aziende agricole il sostegno economico e logistico necessario a ridurre il numero di animali allevati e attuare una transizione ecologica dei metodi di allevamento e delle pratiche agricole. Questo comprende anche l’attuazione di misure che incoraggino l’adozione di diete più ricche di alimenti di origine vegetale e meno di carne e prodotti lattiero-caseari, come raccomandato da più parti e ricordato anche dal ministro Cingolani nel suo primo discorso alle Camere; misure che, per essere efficaci, devono riguardare le politiche per gli appalti pubblici, nuove regole in materia di marketing e pubblicità per carne, latticini e uova e, fondamentale, l’introduzione di prezzi più equi, in grado di considerare i costi ambientali e la giusta remunerazione dei produttori, modificando l’attuale dinamica di formazione del prezzo finale.

Il paradosso della crescita insensata

Uno dei paradossi dell’attuale sistema di produzione è infatti proprio quello di spingere gli allevatori verso numeri sempre più alti, dati i prezzi sempre più bassi che il mercato offre ai loro prodotti “freschi”. In questo contesto, che vede il ripetersi di crisi sempre più frequenti, sarebbe logico un piano di spesa che da un lato accompagni i consumatori nella tendenza già in atto di riduzione dei consumi di carne, e dall’altro gli allevatori verso una riduzione della produzione, potendo così aumentare la qualità dei loro prodotti e la sostenibilità dell’intero settore.

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L’illusione del biometano

Nulla di questo però compare nelle bozze del PNRR, dove, anzi, si afferma che lo sviluppo massiccio del biometano consentirebbe di “migliorare la situazione” del settore zootecnico, senza intaccare il numero degli animali allevati. Un approccio che, se sviluppato in modo realmente circolare, può avere effetti positivi sulla produzione di energia da fonti alternative e sulla gestione dei reflui degli allevamenti, ma che non può rappresentare l’unica soluzione e che, anzi, rischia di rafforzare lo status quo di un sistema intensivo e inquinante, basato sul consumo di grandi quantità di risorse naturali, a partire dai terreni necessari per l’alimentazione animale.

Zootecnia e agricoltura sono infatti strettamente legate, poichè il 70 per cento dei terreni agricoli europei (quasi il 60 per cento in Italia) è occupato da coltivazioni destinate alla mangimistica, alle quali si aggiungono massicce importazioni dall’estero – soia in primis, che incidono in modo rilevante sul cambio di uso del suolo e sulla perdita di biodiversità. E’ dunque evidente come ridurre il numero di animali allevati permetterebbe di alleggerire la pressione sui terreni agricoli, gettando le basi per una transizione ecologica delle pratiche agricole.

Dimezzare i pesticidi ora per poi eliminarli

Questo presupposto metterebbe l’Italia nelle condizioni di investire le risorse economiche disponibili per raggiungere obiettivi tanto virtuosi quanto necessari: arrivare ad avere almeno il 40 per cento di superficie agricola dedicata all’agricoltura biologica entro il 2030, anche attraverso un rafforzamento della ricerca scientifica in questo campo; raggiungere e superare l’obiettivo del 10 per cento delle aree agricole da destinare alla tutela della biodiversità indicato dalla Strategia Europea Biodiversità 2030 e ridurre del 50 per cento la quantità di pesticidi sintetici utilizzati entro il 2025 e dell’80 per cento entro il 2030, con una graduale ma totale eliminazione entro il 2035.

Tutto questo sarà possibile, però, solo superando la “rimozione” dei problemi, ma, al contrario, aprendo un confronto schietto per affrontarli.