Dopo la comunità scientifica e la società, anche la politica sta lentamente (e spesso faticosamente) prendendo coscienza degli impatti degli allevamenti intensivi su ambiente e salute. Ma il passaggio da una generica consapevolezza a delle scelte politiche e amministrative concrete è un terreno sul quale c’è ancora moltissimo da lavorare.

Lo sanno bene le comunità locali che vivono nelle zone in cui si concentrano gli allevamenti intensivi, come diversi comuni della Pianura Padana, dove il numero di animali allevati supera quello degli abitanti, e dove i parametri ambientali legati all’inquinamento di origine zootecnica sono spesso a livelli di guardia. Una situazione al limite, che rischia di peggiorare quando si affacciano progetti di costruzione di nuovi allevamenti intensivi, o di ampliamento di quelli esistenti.

A Schivenoglia una battaglia emblematica

È questo il caso del comune di Schivenoglia, in provincia di Mantova, dove un piccolo comitato ha prima vinto un referendum cittadino contro l’apertura di un nuovo maxi-allevamento di oltre 10.000 suini del grande gruppo Cascone, e da circa due anni sta bloccando l’ampliamento e l’avvio di un altro allevamento di oltre 4.000 suini, sempre di proprietà dello stesso gruppo.

Gli allevamenti intensivi, oltre un certo numero di animali allevati, sono considerati “attività insalubri di prima classe”, proprio a causa dei loro impatti, e per questo sottoposti a procedure di valutazione e monitoraggio. In questo caso, superando i 3.000 suini, la procedura avrebbe dovuto essere una vera e propria Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), dalla quale però il progetto del gruppo Cascone è stato esentato, seguendo quindi una procedura semplificata.

Un precedente pericoloso che non ha preso in considerazione il totale degli animali allevati nel nuovo impianto, bensì la differenza rispetto a precedenti autorizzazioni ottenute per lo stesso sito, talmente datate da essere precedenti alle attuali normative in merito di valutazione ambientale, comprese le distanze di legge che questo tipo di allevamenti devono avere rispetto alle aree abitate. Un piccolo artifizio matematico, che però non cambia il risultato finale: gli impatti ambientali e sanitari sul territorio sono dovuti proprio al totale, non solo dell’allevamento in questione, ma anche degli altri presenti sul territorio, le cui emissioni inquinanti vanno valutate complessivamente… o meglio, andrebbero!

Il comitato di Schivenoglia ha infatti dato battaglia per due anni, sottolineando ogni mancanza, ogni inesattezza, ogni “leggerezza” emersa dai pareri delle autorità locali, apparse più preoccupate di difendere il proprio operato, piuttosto che di tutelare la salute dei cittadini e del territorio. Il risultato è una Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA), che di fatto dà il via libera a portare migliaia di suini nei capannoni costruiti nel frattempo dal gruppo Cascone grazie all’autorizzazione del Comune, nonostante questa fosse in contrasto con il PGT (Piano di Governo del Territorio) vigente e priva del parere di conformità al Regolamento locale d’Igiene. Una AIA basata su valutazioni parziali, come quella numerica già illustrata, ma anche su affermazioni palesemente false, come quella che ha portato a escludere dalla valutazione degli inquinanti le PM2,5 (le più piccole e pericolose tra le polveri fini), dato che “il PM2,5 è scarsamente presente nelle emissioni degli allevamenti zootecnici”, come si afferma nella relazione tecnica presentata dalla ditta. 

Polveri fini “dimenticate” e salute a rischio

Desta forte preoccupazione che tali affermazioni siano state prese per buone da autorità di controllo come le sezioni mantovane di ARPA (Agenzia Regionale Protezione Ambiente) e ATS (Agenzia di Tutela della Salute), che non possono non conoscere tutti gli studi che dimostrano come sia proprio l’ammoniaca originata dagli allevamenti intensivi la seconda causa di formazione delle polveri fini in Italia, in particolare proprio del PM2,5, e come questo sia pericoloso per la salute umana, data la capacità di penetrare più profondamente nell’organismo per le piccolissime dimensioni. 

Un contributo che, secondo ARPA Lombardia, è ancora più significativo nelle zone e nei periodi in cui si concentrano le attività zootecniche, come lo spandimento sui campi dei liquami derivanti dagli allevamenti, altra “fase” del progetto che non è stata presa in considerazione nella valutazione degli impatti, pur essendo una di quelle che origina maggiori emissioni di ammoniaca e polveri fini. Non a caso in altre province e regioni tali parametri sono stati considerati in procedimenti simili e anche in questo caso la stessa ATS Val Padana ne aveva formalmente richiesto la valutazione, salvo poi rilasciare un parere positivo nonostante la mancata risposta su questo importante punto.

Una “leggerezza” particolarmente grave, soprattutto in un comune in cui la concentrazione di PM10 supera il valore limite giornaliero rispetto a quanto previsto dalla normativa e dove la concentrazione delle PM2,5 è di quattro volte superiore alla soglia indicata nelle linee guida dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) sulla qualità dell’aria. I monitoraggi delle stesse autorità sanitarie destano infatti più di una preoccupazione proprio per le patologie legate all’inquinamento atmosferico, che andrebbe quindi ridotto drasticamente, e non aumentato come prevede la stessa relazione presentata dai consulenti della ditta Cascone, per quanto ne sottostimi l’impatto. È dunque particolarmente grave che gli enti preposti accettino e autorizzino un aumento di parametri inquinanti in un’area già sotto pressione, senza aver inserito nella valutazione i cosiddetti valori “di fondo ambientale”, vale a dire i parametri che descrivono il contesto ambientale a cui rapportare gli impatti del progetto proprio per poterne valutare i rischi per la salute dell’ambiente e delle persone

Attivisti di Greenpeace protestano davanti al Ministero delle Politiche Agricole e Forestali

Dal locale al nazionale

Del resto la drastica riduzione delle emissioni nazionali di ammoniaca, alle quali gli allevamenti intensivi contribuiscono per circa due terzi del totale e che sono all’origine dell’inquinamento locale di acqua, aria e suolo, è un impegno che l’Italia è chiamata a rispettare in tempi brevi da una specifica Direttiva europea (2016/2284), citata anche nella risposta che la Commissione ha fornito a un’interrogazione presentata sul caso specifico di Schivenoglia.

È evidente dunque come il caso di Schivenoglia sia emblematico, come lo sono tanti altri casi di piccoli comitati che si oppongono agli allevamenti intensivi, spesso senza nessun sostegno e per i quali Greenpeace ha realizzato un kit di attivazione contro gli allevamenti intensivi, che racchiude informazioni e consigli.

Comitati ai quali le autorità locali dovrebbero dare maggior ascolto, per avviare politiche territoriali che puntino a un immediato stop all’aumento del numero degli animali allevati e una progressiva riduzione a partire dalle zone a maggiore densità zootecnica. Come più volte ricordato anche da ISPRA, non esistono infatti soluzioni tecniche in grado di ridurre in modo significativo l’inquinamento causato dalla grande concentrazione di allevamenti intensivi che si trova in alcune zone della Pianura Padana: è necessaria una riduzione delle densità. 

Su questi temi la politica locale si deve intrecciare con quella nazionale, per fare in modo che gli ingenti fondi pubblici spesi a sostegno della zootecnia non continuino a supportare un modello inquinante e spesso svilente per gli stessi allevatori, ma che servano ad avviare un piano di progressiva riduzione delle quantità di produzione e consumi, puntando a un aumento della qualità dei modelli produttivi e dei prodotti alimentari, a prezzi accessibili per tutta la popolazione.