La tragedia umana della guerra in corso in Ucraina ci parla non solo della necessità di arrivare il prima possibile a un cessate il fuoco, ma ci pone interrogativi profondi sulle basi del nostro sistema di sviluppo, e sulla strada da intraprendere per uscire da questa ulteriore crisi che si abbatterà direttamente o indirettamente su diversi Paesi anche lontani dall’area del conflitto, Italia inclusa.

Relazioni commerciali con Russia e Ucraina

Così come il sistema energetico, anche il nostro sistema agroalimentare è in allarme, a causa delle molteplici relazioni commerciali con Russia e Ucraina, origine di materie prime e destinazione di prodotti italiani di esportazione. 

Sulla necessità di fare fronte alle difficoltà dell’agroalimentare italiano è scontato essere d’accordo, ma le soluzioni che le lobby agricole propongono sono preoccupanti e rischiano di precipitare il settore di crisi in crisi.

Le lobby dell’agribusiness

Invocare la sospensione degli obiettivi europei per rendere più sostenibile il settore contenuti nella strategia europea sulla Biodiversità e Farm to Fork, come sta facendo il Copa-Cogeca (la federazione europea di lobbying che comprende le associazioni di agricoltori e cooperative agricole), o aprire i nostri porti a mais OGM o contenente residui di pesticidi vietati in Europa come chiedono i “cerealisti” italiani (Anacer), sembrano azioni più rivolte a sfruttare la situazione per eliminare misure da sempre sgradite alle lobby agroindustriali, piuttosto che ad  affrontare una crisi che è solo in parte emergenziale, e in larga misura strutturale. 

L’import di grano tenero e mais

Lo mette bene in luce una recente analisi di ISMEA sugli impatti della guerra, in cui emerge innanzitutto come l’aumento dei prezzi dei cereali sia precedente e solo parzialmente imputabile al conflitto in corso, perché legato a cali della produzione globale dovuti ai cambiamenti climatici (e in particolare alla siccità che ha colpito il Canada abbattendo la sua produzione di grano duro del 60%), agli aumenti dei costi energetici, nonché a dinamiche speculative, essendo questi beni quotati in borsa.

A fronte di questo impressionante calo di produzione canadese, appaiono ridimensionate le percentuali riferite a Russia e Ucraina: i due Paesi in questione sono importanti esportatori di cereali e semi oleosi, ma con un ruolo limitato nella fornitura totale di cereali dell’Unione Europea; per quanto riguarda il frumento tenero solo il 6% dell’import italiano proviene da Russia e Ucraina, mentre i volumi sono più importanti per il mais, che vede l’Ucraina secondo fornitore per l’Italia, con una quota di circa il 20% dell’import

Secondo ISMEA è dunque il mais a preoccupare, soprattutto a causa della “ormai strutturale dipendenza degli allevamenti dal prodotto di provenienza estera”. 

La sicurezza alimentare

È importante allora chiarire cosa si intende per “sicurezza alimentare” e nell’interesse di chi si agita questo tema, molto usato in questi giorni per chiedere di cancellare anche i piccoli passi fatti per rendere l’agricoltura europea più in equilibrio con la natura e con il clima, come la destinazione di piccole percentuali (10% o 4%, a seconda delle misure interessate) di aree agricole a elementi naturali per tutelare la biodiversità.

La prima insicurezza del sistema viene infatti da un altro fattore, che non ha nulla a che vedere con la tragedia della guerra, e che è radicato in decenni di zootecnia intensiva in Europa: oltre due terzi dei terreni agricoli europei sono destinati all’alimentazione animale, e non al consumo diretto umano. Un’estensione enorme, che però non basta ad alimentare il settore zootecnico, alla quale si aggiungono i terreni coltivati oltreoceano, spesso a discapito di foreste ed ecosistemi naturali essenziali per tutelare la biodiversità e difenderci dai cambiamenti climatici

Se a questo si aggiunge che la zootecnia intensiva è la principale responsabile delle emissioni climalteranti e inquinanti imputabili all’agricoltura, il quadro è sufficientemente chiaro per individuare nella riduzione del numero degli animali allevati e dei i consumi di carne la prima risposta in grado di garantire più sicurezza e più resilienza a tutto il sistema agroalimentare europeo. 

Questo permetterebbe in primis di liberare terreni agricoli per il consumo umano, anche a beneficio dei Paesi più esposti alle conseguenze della guerra, come Nord Africa e Medio Oriente, che importano oltre la metà del proprio fabbisogno di cereali da Russia e Ucraina

Il mercato dei cereali

In Europa, circa il 60% dei cereali utilizzati è destinato a nutrire animali e solo il 24% è usato per il diretto consumo umano. Intervenire su questo squilibrio permetterebbe di rafforzare la sicurezza alimentare senza compromettere la situazione già gravissima della biodiversità europea, senza alimentare quei cambiamenti climatici che colpiscono prima di tutto agricoltori e allevatori. Consentirebbe inoltre agli stessi allevatori di essere meno dipendenti da importazioni di materie prime dall’estero e più protetti dalla volatilità dei loro prezzi, ai quali non corrisponde un guadagno adeguato, proprio a causa di un mercato che spinge a produrre sempre di più, e vendere a prezzi sempre più bassi.  

Per rompere questa spirale è necessario modificare cosa produciamo e cosa consumiamo a livello europeo, e non spingere a verso un’ulteriore intensificazione della produzione come chiedono le lobby agricole, senza pensare alle conseguenze che questo avrà non solo sull’ambiente e sul clima, ma anche sul sostentamento delle stesse produzioni agricole, che dipendono da un ambiente sano, e da cui a dipende a sua volta la nostra sicurezza alimentare

Con questi contenuti più di 60 organizzazioni europee hanno inviato una lettera alla Presidenza europea e ai commissari agricoltura e ambiente, per chiedere di non intraprendere la pericolosa e insensata strada di un abbassamento degli standard ambientali delle politiche comunitarie, che oltre a non risolvere la crisi attuale, rischia di provocarne di peggiori nel prossimo futuro.

Ferma gli Allevamenti Intensivi

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